L’ElzeMìro – Olio di lino 8a – Tempo d’attesa

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35
Ragionari di Phil Mancuso dalla sua prescelta casa di mare, nuova e atlantica, aspettandosi Sciùa.
L’amore è tradimento in sé, Ernani Ernani invólami… Pensa così, senza che un argomentare, quantunque a flipper delle interiora, abbia portato a quella conclusione, o solo perché la casa è satura di invólami (di Montserrat Caballé che, forse con la Pryce soltanto e qualche tedesca überalles tra ieri e oggi,  gli paiono avere avuto la Vvoce), canto che tiene a volume tale da costituire la distrazione e la caffeina indispensabile a tenerlo desto nella revisione… all’aborrìto amplesso… di una tesi di laurea malaccorta e inconcludente, eccezione fatta pel titolo, Italiani poca gente (in italiano), sottotitolo, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi; par proprio a ben guardare il non concludere l’attitudine di questi tempi singolari, i cui  cassetti, pur vuoti, giacciono in disordine mai chiusi; l’amore è tradimento in sé, ohé Ernani ohé. La frase gli provocò quella sofisticata tristezza che sorge da desiderio e nostalgia, ammesso che le due parole indichino affetti o concetti non soprascritti in partitura. Abbiamo nondimeno chiaro il sentimento di Philphil dopo il ritorno dalle montagne e senza Sciùa; quello di chi ammira, anzi contempla in sé l’Amore (e Psiche povero cuor dov’è…?) più dell’amata o, più della bella la Bellezza, genere a parte. Scempiaggini di vecchi, direbbe un lettore educato alle sintesi sarcastiche di Lorenzo da Ponte in così-fan-tutte, titolo che senza timore di omissioni, potrebbe essere voltato al generico plurale ffan-tutti. Da tre mesi Ph si aspetta l’arrivo di Sciùa; lo direbbe ritorno se non temesse di volgere in letteratura l’accordo, dopo meditata decisione, di raggiungersi in riva a quell’Atlantico misterioso che Phil, seduti entrambi in riva a un laghetto fanghiglioso nell’intimità di una panca ricavata da un tronco di pino silvestre, le aveva illustrato come la porte épique d’où l’on passe partout (èpica porta per cui si passa dappertutto; il lettore aggiunga ai dati che, allora, c’erano stati sì baci per cui egli si sentiva ormai inabile e altro da cui aveva ricavato l’impressione di essere un altro); lei avrebbe svolto e superato le pratiche per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo sulla banchisa dei bianchi e, e  poi è già Natale, lo raggiungerà è la domanda che interrogava Phiphil Mancuso ogni minuto, nella casa acquisita in fretta e furia e arredata con l’immediato indispensabile, solo per dare a lei, la bella Sciùa, l’onore di consacrarla in nido; una bella casa, con un bel giardino interno lastricato che Phil, in previsione, aveva già fatto dotare di teli mobili per gobbare la luce dell’estate, e che i precedenti proprietari (deceduti, l’immobile era rimasto in vendita per diciotto mesi) avevano decorato con orci fitti di Plumbago; poco discosto dal centro dell’impluvio col suo pozzetto coperto da una bella griglia di cor-ten tipo A, sorgeva una quercia, intorno alla quale di sicuro, come sull’ulivo il letto di Ulisse, la casa era stata costruita; grande, troppa per due persone, una delle quali, lui, ora che sta bene e nella solitudine di quei mesi, ha la contezza di abitarne un’altra di dimora, esclusiva, quella del declino e della morte, ché tra lui e Sciùa sventolerebbero sempre come panni d’inverno al vento stesi, non quanti circa, ma di preciso venti e sette anni. L’allegrezza che aveva dominato l’estate alpina e terapeutica con la ritrovata salute, secondo Phil miracolo d’amore, non riuscivano ad attenuare di sé la percezione, quanto si voglia favolosa per uno che non lo è mai stato, del naufrago o del disperso in combattimento con un ciclopico seppur invisibile Tancredi. Sciùa, perché mai se non per riconoscenza avrebbe accondisceso a quella voluttà di costituire con lui il fantasma di una relazione, vocaboli entrambi che presero subito a guizzare  lì stesso come vespe nell’infilata di stanze, una appresso all’altra a inseguire il perimetro del cortile. Eppure egli Phil ci crede, crede cioè che il fantasma prenderebbe corpo per tutto il tempo che Sciùa sarebbe riuscita a vivere con lui senza stancarsi del suo aspetto, magro sì ora ma grinzosetto a guardare, di uomo all’asta della necessità, con le accertate inerzie funzionali che l’anzianità porta con sé (peraltro nella vita anteriore era stato un così scarso amante rispetto alle recenti inattese prodezze alpine e alle glorie illustrate non si dice dai divi della pornografia, ma anche solo da uomini comuni come i suoi colleghi, magari dagli appetiti non comuni). In quel tempo d’attesa che lui felpava di dubbio e musica… fuggiam se teco vivere mi sia d’amor concesso… Philphil prese a pensare che Sciùa avrebbe avuto presto in uggia un amore monco, che non si manifestasse con costante frequenza per quel che nei film chiamano to have sex; per quanto tempo si sarebbe adattata a contentarsi di volenterosi fingerfinger senza lo sbocco della follada o di laboriose chupadas (or blowjobbing) before fuckfuckfuckme, tradusse Phil allontanandosi in volo da quel contesto di impudicizie con la fantasia, realistica peraltro, che quello orale, dunque non scritto che non sia appagante, è lo having sex di leccaciuffe (o lesbiche) tra loro; e tra i più schizzinosi de’ maschi qualche volta, in nomine della trinità vertigine, narciso e avidità, che li alimenta… un Eden di delizia saran quegli antri a me.
Senza preavviso, le finestre aperte sul cortile per dar aria agli interiors, tutte presero ad agitarsi simili a comari di paese che in ritardo al passaggio del santo in processione, si dessero prima la voce e poi prese dal furore di conquistar per sé la migliore posizione per vederlo, sbattessero l’una contro l’altra cieche. Questo paragone lo desumiamo direttamente dal quaderno di appunti e bozze di Phil per questo suo nuovo libro, Lapislazuli, che dall’impossibilità della prima puntata, sembra avere ripreso la corsa verso una conclusione. Fàtima la governante marocchina ( acquisizione di lusso dedicato) scivolò a chiuder tutto con grande cura. Però di questo Phil è così contento, di avere una casa grande e luminosa e una governante antica più che anziana, che lo rassicura, anche perché annovera questa pure tra le magie suscitate da Sciùa sulla sua vita, malagueñita Sciùa. Il cielo andò coprendosi e oscurandosi a una velocità non inusuale là in riva all’atlantico, la temperatura prese ad abbassarsi, vento del nord vento d’inverno. Phil passò in cucina per il tè con merendina di mezzo pomeriggio e nel medesimo istante in cui posava il bollitore sul piano a induzione, oh aggiornatissimo Phil, ecco lo slash di un fulmine che si frantumò nel mare quindi le famose cateratte del cielo presero a sfracassarsi a terra, ovvero nell’acque in furia via via più fragorosa. La corrente e dunque la luce e dunque la  musica e l’induzione si fermarono siderati dallo shock di una sovratensione; lontano arrivò il fischio del gruppo di continuità domestico. Phil volle aprire la finestra della cucina e, nello spalancarla subito fu afferrato da un vorticoso odore di mare, di elettricità per quanto possa avere odore, e di freddo, che tranne per gli eschimesi non ha odori specifici ma che appunto, è freddo. Richiuse subito, forzando fuori il vento. (Occorre precisare da dipingersela cogli occhi, che la casa fu edificata e non tanto tempo fa, in un punto scosceso lungo il bordo frastagliato della penisola di roccia su cui gli antichi, i soliti romani dappertutti, posarono la città vecchia, che da est ad ovest si inarca, distende e arrampica tra spiagge e fiordi fin al confine delle terre emerse a occidente, a sud si stempera tra colline e campi e boschi, e a nord culmina in una falesia larga simile alla testa di un martello, con l’alta torre in cima del faro d’Ercole (sic per qualche motivo), una baia lunare di qua, il porto di là.  Ci fu un fuggitivo tempo d’attesa  prima che la casa ricominciasse a funzionare, mentre  altroché, rough winds do shake the darling home of Phil. Quel trambusto superlativo tuttavia aveva fatto scattare alla memoria del Mancuso non tanto Shakespeare, Sonnet XVIII, non tanto le belle tempeste del teatro antico, architettate in quinta con ardui cassoni a ruote poligonali, piastre in ferro incatenate e lastre di lamiera a simulare rombi e saette (di questo Phil nulla sa ché del teatro, d’oggi e di ieri, confonde l’edificio con la sostanza) quanto e di più la scena del temporale per la crocifissione di Gesù; la del Tintoretto in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et cètera… va a capire perché. Ph andò all’apparecchio stereo scosso dalla sincope elettrica e lo riavviò con un brano ma della misteriosa Fiona Apple, Every single night, che lui aveva scoperto, every single night grazie alla Sciùa che lo amava ossessiva, non lui, il brano, e che adesso lui suonava da settimane due per accordarsi con lei, empatico a distanza, nella pelle, peli, pelliccia della Sua Sciùa… These ideas of mine/ Percolate the mind.
Per quella sera stessa e per motivi cui accenneremo egli accettò l’invito alla cena di Natale di un vecchio pederasta, ricco,  commerciante a riposo di tessuti pregiati, un milanese diabetico; gli aveva fornito tende e passamanerie e consigli per la casa, raccontarne non farebbe deviare di uno zig la conclusione di questa puntata, tuttavia l’uomo, migrato in quella città lontana dove aveva stabilito una specie di nido familiare con un bellissimo fashion model che di sicuro  tradiva quella complicità o per lo meno ne allentava i vincoli nelle consuete trasferte per correre le passerelle, era  attore di sé stesso, malinconico e cordiale, una Carmen Miranda ma opaca nel vestire, cortese all’inverosimile, affettuoso con Phil, cui quei modi borghesi ed eversivi allo stesso tempo, come per quel poeta italiano il belato della sua capra, erano fraterni non tanto al dolore che Philphil non provava, non ancora, quanto alla sua luttuosa gioia (sarebbe arrivata Sciùa finalmente e se e quando se ne sarebbe andata, ricordiamo, erano le domande che gli turbavano il sol dell’avvenire). Era proprietario di immobili il milanese, dovunque nell’emisfero settentrionale, ne ricavava da vivere con munificenza, a prescindere dal capitale appartato in giudiziose complicità finanziarie; la sua enorme abitazione, su due livelli all’ultimo piano di un palazzo memore di Miami con un giardino pensile esposto al lungomare turistico della città, tra bibelots, servi-muti e mobili d’autentico stile, sculture pop di esplicito esibizionismo e biberon fallici, quadri notevoli, tutto ammassato con gusto da magazzino d’antiquariato di pregio, benché dimora di cerimonie e buon gusto, sapeva di bucati, lindi, pulitissimi e semplici per tradizione; non sapeva di profumi adulterati anche nel pensiero da sentori d’orgia; tutto, al contrario, profumava lassù di ritorno, dopo una lunga assenza, di riconciliazione, di bene ritrovato; non un filo di polvere ovunque, ogni andito ricordava il ferro da stiro e i panni lasciati evaporare ben bene prima di riporli negl’armadi, ogni cosa odorosa di odori poco tangibili, di madri più che di una madre, forse di Fatima, gli abiti della quale, anche la sua pelle, recavano lo stesso sentore al naso fantasioso di Phil… Every single night’s alright, every single night’s a fight.
Ciò nonostante… Phil Mancuso stava spogliandosi allo specchio evitandone il più che fosse possibile lo sguardo imperterrito, uguale a quello di certi gatti tutt’occhi che ogni giorno stazionavano immobili sui sacchi di fave di cacao, datteri, fichi e frutta secca dell’ultimo antico fondaco della città, mutato oggi in oasi di biological correctness; aveva da radersi, prendere una doccia, vestirsi di fresco, cravatta italiana e giacca inglese… Ciò nonostante è tardi  per fare il Proust della mia prostata…  si disse a voce bassa… I just want to feel everything every single night, canticchiò.

BARTURO 10

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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