L’ElzeMìro – Mille+infinito – La via del tiranno

Per un altopiano che tu e il tuo vocabolario propenso alle ridondanze definireste ubertoso, in lungo tra vigne basse e olivete e frutteti corre a tratti e a tratti si snoda la via del tiranno ; i coltìvi sono protetti da siepi compatte di rovi o da certi muretti a secco impavidi al vento che qui soffia con una certa determinazione, ben costruiti e frutto di una scelta oculata dei pezzi da incastrare l’un con l’altro e di diversi colori, questi sul grigio giallastro uniforme del tufo, quelli scuri, neri di fatto e paiono ossidiane, altri ancora rossicci, tondeggianti e ora grossi e tozzi, ora allungati e, per l’ingenuo, venati di un’illusione d’oro, ed è pirite. A un certo punto, al limite di questo altopiano ricco d’acqua, sembra o che la terra abbia subito un collasso e sia precipitata, o che la terra dalla terra si sia divisa, come una ferita aperta che non si rimarginerà più ; lì, l’altopiano finisce in un barranco profondo molte centinaia di metri, un cañon, in fondo al quale non c’è nulla se non i resti sinuosi di qualcosa che forse chissà un tempo fu un fiume, morto nel corso degli eoni tra la sabbia ; essere precisi in proposito è impossibile : ti voglio dire che non si sa se prima si asciugò il fiume o se prima fu la sabbia a mangiarselo o se davvero un fiume corse là sotto. È materia di geologi. Come materia di botanici il mistero di certi boschetti di pochi eucalipti o arbusti spersi, come alfieri o tamburini scalcinati dopo una battaglia ma che, tuttavia, attingendo il proprio nutrimento a chissà quali risorse nascoste nella pancia della terra, sopravvivono e danno ombra, per un gusto loro di farlo ché qui non sopravvive nessuno che la cerchi, l’ombra, e che a volte, per certi fenomeni meteorologici, permettono lo spuntare di un po’ d’erba ai loro piedi e persino di qualche fiore ; per lo più effimero come la notte che lo mette al mondo all’alba, e che con l’andar del giorno, dato il calore insostenibile del cañon, lo ritira fino a sera quando, la temperatura scendendo di colpo e il formarsi così di certe rugiade, permettono il ripetersi, ma non sempre, della stessa meraviglia. Fatto incontrovertibile è che la strada, la via del tiranno, ben ordinata e decentemente asfaltata fino al limite dello sbarranco lì non termina ma si inabissa, per così dire, giù lungo le spalle scoscese del  cañon, di balza in balza, un tornante appresso all’altro qui si stringe, là si allarga e ti illude, tu diresti come una serpe scorticata dalla temperatura, ma viva ; il fondo stradale sembra un ricordo cui nessuno voglia tornare, qua e là integro come un reperto archeologico o segnato da piaghe non di rado profonde, scavalcate da ponticelli di travi in ferro, altrove un polverone gassoso.

Il grosso furgone che ora la sta percorrendo all’ingiù, verso l’abisso del cañon, per alcuni punti riesce a scendere in terza con qualche agilità e dolce sibilare di freni, per superare altri si sente che grattugia la seconda e infine freno a mano e prima marcia per evitare di ribaltarsi tanto sobbalza lungo il percorso che qui niente muretti o spallette di cemento o guarda-rail, oggetti che peraltro non guardano a nessuno né a nulla. È un furgone verde militare, i pneumatici corazzati, un grande cassone dietro che lo rende simile a una scomoda ambulanza da campo, adatta cioè al trasporto di più di un ferito, ovvero semplicemente a un furgone. È tutto di ferro, non una briciola di plastica, nemmeno i paraurti rinforzati, né di vetro ché il cassone non ha finestrini, né feritoie, e anche il portellone sul retro del mezzo ne è privo. Sul tetto dell’abitacolo è montato il motore per il condizionamento d’aria che in un certo senso serve da spoiler. La cabina è più stretta del cassone dietro, ma è comoda per tre persone armate ; in questo caso ce ne sono solo due, l’autista e un’altra, e disarmate. La via del tiranno si chiama così da sempre, fin da quando i più vecchi tra i contadini dell’altopiano ricordano. Quindi via del tiranno e punto. Via che, arrivata sul fondo del cañon perde la traccia di sé se si escludono le impronte che altri furgoni o autocarri hanno lasciato nel tempo, non necessariamente antico, e che si perdono sul terreno senza più ritrovarsi.

Fin qui ti ho detto soltanto di un furgone che scende giù per la strada, tracciata, si narra, a dura forza di dure braccia umane all’uopo costrette, mai definita da uno scopo o finita male e abbandonata. Ma in definitiva, eccolo che atterra il furgone sul relativo piano nel fondo del cañon, ambiente che ai colti come te ricorderebbe il nome e gli scopi di una geènna e ai non colti un luogo ingannevole e senza nome, una dead end peraltro d’inferno, adatta a regolamenti di conti o a sepolture improvvisate per una qualsiasi delle mafie. Si ferma il furgone a non tanta distanza da uno dei già detti boschetti, simile da vicino quasi a una piccola oasi. A pochi passi, sulla terra che di continuo si sfarina e che il vento anche adesso soffia via, v’è, ohi, come descriverla con precisione è una sfida al dizionario : è, più che una catasta, è un mucchio di cenci, un accrocco di resti, un pagliaio di brandelli umani ormai nemmeno puzzolenti tanto il sole vi si è accanito con successo, un piccolo cimitero anche, di stampelle di legno, manici di chitarre o altri strumenti a corda, sonagli e tamburelli, tutto egualmente mummificato, cremato a secco per usare il  paradosso nella similitudine. La vista non è nemmeno raccapricciante. Ti sentiresti in una Pompei svelata, non fosse che le pose dei, non sapresti se chiamarli cadaveri, scheletri destrutturati o reperti, il loro insieme, se tu fossi costretto a osservarlo anche con il semplice occhio dell’immaginazione, sguinzaglierebbe l’immagine di un sabba tra buffoni, di rigoletti colti nell’attimo della loro personale tragedia, o infine di un murale messicano ma di un pittore morto in vita, avvelenato dal mezcal. Non è così per i due soldati che sono scesi dal furgone con calma, ignorando la scomposizione lì vicina, lasciano aperti gli sportelli e scaricano poche cose : una borsa termica azzurra, poco marziale ma alla vista zeppa di cose, uno zaino leggero con sopra arrotolati due materassini, una zappa, due fucili di ordinanza, non ti saprei dire la marca, e dei curiosi rampini ma lunghi, appuntiti e con un manico di legno, abbastanza simili a quelli dei portuali di un tempo per agganciare e spostare i carichi e ordinarli. Per farti convinto guardati il film Fronte del porto. Dei due soldati, mentre uno chiappa rampini e borsa termica, l’altro si infila lo zaino e tira giù dall’abitacolo una valigiona stereo, metallo cromata, e con un nugolo di altoparlanti a vista. Così, carichi di quelle loro carabattole si avviano verso il folto di alberi lì vicino. Ora osservali con quell’occhi che ti ho detto, osservali camminare, uno davanti all’altro a distanza di un metro e mezzo circa, alto più delle norma quello davanti e un po’ più piccolo della norma il secondo che lo segue. Sono rilassati, senza fretta,  turistici. Alle loro spalle, il furgone fermo sotto il sole, pare un’icona di terracotta pronta per la fornace. I due si accampano all’ombra e subito si danno da fare a estrarre cibo dalla  borsa termica, lattine di birra volano dalle une alle altre mani. Le linguette di apertura schioccano che sembrano un rumore nel silenzio che, che regna ti dico per far contenta la tua retorica ; la birra scorre nelle gargante ; un sorso e poi un attimo di distrazione : il silenzio ahia, è intermittente, ché dal furgone arrivano rumori di pugni o calci dati dall’interno, e ora sì ora no pare ne escano voci, ululati in una lingua inclassificabile. I due soldati guardano il furgone che sembra quasi traballare per l’impeto con cui mani o piedi ne percuotono da dentro il cassone ; da molto lontano arrivano i richiami di rapaci che volteggiano lassù molto in alto. I soldati si guardano, si siedono comodi con le schiena, ciascuno contro il tronco di un albero, allungano le gambe una sull’altra, la lattina al fianco, il fucile lasciato poco distante e con in mano ognuno un un grosso panino imbottito di ogni ben di dio da addentare. E lo addentano. Subito dopo, uno dei due soldati si premura di asciugarsi le dita, benché non ancora unte, cava di tasca una chiavetta usb, si spèncola pigro fino allo stereo, la inserisce, poi pigia un paio di tasti. Dallo stereo arriva la voce di vasco rossi… voglio una vita….esageratavoglio una vita come stivmeckuìn….e ho guardato la televisione….siamo soli….sei chiara come l’aria….fosse stato per meadesso forse sarei laureato….c’è chi dice no e e… e non si sa, non è possibile stabilire di principio se i due capiscano le parole, se magari conoscano la lingua di Vasco. Ma a vederli i due sembra proprio che se le gustino le canzoni, ora simulando a soli di chitarra ora percuotendo fantastici charleston, ora cantando sui ritornelli ed è lì che si può riconoscere ai due un accento male importato dall’originale.

È la controra appena iniziata, gli ululati e i colpi dal furgone si sono affievoliti e poi ritardati e poi ; nel silenzio, interrotto l’ascolto dello stereo i due soldati si godono il fresco relativo della loro piccola oasi, l’ebbrezza data dalle tre birre bevute, la soddisfazione dei rutti emessi e pisolano sui materassini che hanno steso a terra. Il sole gira verso ovest. A metà pomeriggio i due si svegliano e si mettono in ascolto, ah bene, il furgone è silenzioso. È ancora presto e viene l’idea di farsi un tè, si tira fuori un fornelletto dallo zaino, l’acqua e un pentolino, persino una piccola teiera e le mitiche foglie della camellia sinensis. Fatto, pronto, lo versa ognuno in una sua gamella. Sorseggiano il liquido, soffiandoci sopra ogni tanto per raffreddarne la superficie. O almeno con questa illusione. E dopo un po’ tutto sembra un ascolta si fa sera. I due raccattano le loro cose, i due rampini, tutto e si riavviano verso il furgone. Rimettono con cura nell’abitacolo il loro e poi vanno ad aprire i portelloni. Bè sì, non è gradevole la vampata di odore caliente che riesci a immaginarti e che li colpisce : è un misto di diversi fetori umani, non c’è bisogno di tanto, basti dire che i due, nonostante le mascherine che hanno indossato, fanno quasi un salto indietro. Attendono che la bocca del furgone sfiati e poi si riavvicinano. Dentro, una massa di corpi distorti, di bocche e di occhi, lessati in pratica nella loro stessa acqua. La membrana cellulare, è noto, oltre una data temperatura, circa 49 gradi, si rompe, le proteine si denaturano, la cellula tutta va in necrosi ; farla breve l’organismo muore ma non che sia un bel vedere ; ti ripeto, bolliti dal di dentro. Vabbè i due soldati con santa pazienza sgrovigliano ed estraggono uno dopo l’altro i corpi, uno dopo l’altro li rampìnano, li trascinano alla vecchia catasta e qui, uno, due, tre, li gettano. Raccattano anche i pochi strumenti che i morti, da vivi ancora avevano con sé al montare nel furgone. Anche quelli vanno all’ammasso. Benone tutto fatto, a ripulire il furgone penseranno strada facendo presso qualche area di servizio che abbia una pompa per l’acqua. Ora via, ripartono all’insù per l’altopiano, lungo la via del tiranno, prima che annotti ché risalirla a buio è un malo affare. Pericoloso. E i due soldati mica vogliono rischiare di mettere le ruote fuori bordo e precipitare. Vanno su spediti in quell’ora blu d’estate.

A proposito i due, ascoltando la loro musica, hanno contravvenuto, in piena libertà, a una pandetta del tiranno – il tiranno c’è ma non si vede – : di mai ascoltare musica o altro e di sequestrare dovunque si trovino cantori e cantastorie di strada, i loro strumenti e, per così dire, ogni arredo di scena : teloni, cartelli. In un paese dove la parola passata di bocca in orecchia, la parola modulata dal ritmo, l’epica e il gesto sono l’arte principe per afferrare i frammenti con cui comporre e scomporre le verità : che il tiranno è, come si dice, nudo, né immortale né inossidabile ; forse che è stato ferito e gravemente e chissà se è morto in un attentato. Con le prime stelle tra i refoli di vento dai finestrini abbassati il furgone corre di nuovo tra le vigne e gli ulivi e ah, dimenticavo, tra i bei frutteti in rigoglio estivo. E buona notte.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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