L’ElzeMìro – Mille+Infinito-Epitaffio vivente

Stare al mondo. Lo capisci un po’ sul vago, ma lo capisci che per alcuni stare al mondo è infernale. La cosa non ti tocca perché per te e per molte e molti tuoi simili pure è faticoso, malinconico, persino umiliante ; lo tocchi con mano da quando al mondo sei venuta. Non è facile. Molto terra terra perché esistono gli specchi, in generale, e in particolare quando si hanno capelli come i tuoi, brutti, tra le parole per descriverli è la meno gentile ma la più concreta, brutti al punto da sembrare malati, tagliati poi e pettinati senza criterio, simili a quelle foglie che un vento africano sfiori e prosciughi, a prescindere dalla stagione. Tinti e ritinti. E le tinture ripetute non migliorano la loro situazione cronica.

Indi, hai imparato che non è la stessa cosa chiamarsi Pia o chiamarsi Angelica. Per quanto entrambi i nomi appartengano allo stesso ambito mitico di fede e speranza, i loro confini economici lo sai che non combaciano : di Pie hai voglia se ne conosci, anche rafforzate in marìepie, ma nessuna che sia nata a Lambrate e si chiami Angelica, e questo non hai chiaro se te lo racconta l’embrione o l’aborto di una tua coscienza sociale. Poi, vestirsi come ti vesti, di marrone anche quando dovrebbe sembrare azzurro, è sintomo di una sorta di astensionismo chissà se del gusto o della cura di sé che non ti giova e ti avvilisce.

A scuola, tecnica di amministrazione finanza e marketing ovvero ragioneria, i compagni maschi non ti hanno situata né tra i ròiti né tra le carine – altra è la confederazione delle fighe, che sembra ed è piccola e poco popolata, ma per accedervi e restarci occorrono visti e passaporti e permessi di soggiorno – ; stai in un cielo di stelle spente, Pia, dunque che nessuno vede a occhio nudo, nemmeno le ragazze che potrebbero averne voglia. A scuola però grazie alla tua caparbietà nello studio per stare a galla, a galla sei stata e questo, a cascata, è il tuo modo di stare al mondo. Che tu cammini, corra, faccia, che tu funzioni è un fatto ; si capisce con dei piccoli intoppi, dei piccoli difetti, oggi un raffreddore che perdura settimane, magari un mese e che ti infiamma il naso e il labbro superiore, domani una cistite che suscita dei dubbi sull’utilità di tutte quelle palpebre di rosa pallido sull’occhio della vulva. L’obsolescenza è un’equazione a diverse incognite. E tu tiri a diritto. D’inverno, le altre, nei loro roboni milanesi, nei loro doctor martens serrati sui loro skinny blue jeans ti sembrano miliziane di una qualche rivoluzione. Quelle, tu credi abbiano inteso che nell’esistenza occorre saltarci dentro in missione, pancia nuda a terra e giù la testa a superare l’impossibile. Così che dello stesso robone o cappotto, ma di un marrone diverso dal tuo, di un marrone ricco dei toni di complemento se proprio dev’essere marrone, se ne adornano da vincitrici come la volpe o il gatto fanno con la loro coda. Su di te risulta quello che è, di un color buccia di castagna nel fango, contro il freddo ah bè certo ma quello che ti sta dentro, sottopelle ed è irriducibile. E quando le giovani donne o di età prossimali si diffondono tutt’intorno in un frullìo di gambe, spavaldo fuori dai pants, e a seconda allettante o ridicolo o inguardabile ma sempre soddisfatto del proprio apparirsi, tu speri di arrivare a sera senza che le caviglie ti si gonfino quasi in un accenno di ipostasi precoce.

C’è su tutto il problema della mamma. La cerniera chiusa sulla tua esistenza. Né di buona né di altra indole quando era viva e sana, condizioni queste che a guardar bene sembra possano coincidere, di quell’indole mancante e della sua dedizione alla miseria tu hai smesso di incolparla, sei generosa con lei a modo tuo, dopo che entrambe siete rimaste vedove di tuo padre, un ometto con i baffi che a un certo punto di una vita da topo a sgambettare d’allegrezza pieno dentro la girandola della Innocenti automobili, per una ragione che a pochi sarebbe sembrata implausibile, la chiusura della fabbrica, si fece trovare appeso per una corda di nylon a un trave del solaio, la testa per discrezione nascosta da un sacchetto di carta o shopper, usato è ovvio. Non in senso figurato, per te, quella conversione della sostanza del padre è stata un colpo da cui non sai quanto, e se, ti sei mai sollevata. Per tua madre sai bene che invece quell’impiccagione è stata un’offesa, che ha fatto da preludio a un’altra, importante e che l’ha colta nel vivo di sé, un ictus, scampata dal quale sì sì riprendersi si è ripresa, mezza cionca però, infastidita e fastidiosa e isolata nel risentimento ; condizione questa non rara tra le vittime, come lei, di un accidente grave e, oltretutto, afflitte da una fede senza perplessità nella speranza. Tu capisci che la speranza è un sentimento senza speranza ma, se di farne a meno o mandarlo al diavolo, non sai se ne saresti capace. Unica consolazione per entrambe, che il povero marito poco prima di appendersi aveva saldato l’assai faticato mutuo per l’appartamento di Lambrate, e per fortuna in anni ancora lontani dalla speculazione.

Non ci sei nata ma da che hai ricordi abitate al quinto e ultimo piano di un fabbricato tirato su nel 1936, anno XIV dell’era fascista, così sta scolpito nella chiave di volta del portone. Uno stabile dall’intonaco del colore di un mahh e ammalorato con metodo dal tempo. All’apogeo del suo successo nazionale di pubblico, e dopo averne ordinato la copertura di alcuni canali o navigli, la dittatura si era prefissa il goal di allargare la città verso la ferrovia e di qua dalla nuovissima stazione, una volta dismessa all’Ortica quella vecchia (1906) del vicus o borgo di Lambrate, porto fluviale sul Lambro in antico e comune imperiale e poi sabaudo fino al 1923, anno dell’accorpamento a Milano. L’idea fu di offrire un alloggio con intenzioni borghesi alla minuteria sociale e costola femminiella cara al regime masculo, masculissimo. Voi vi approdaste in treno dalla lontana signoria di Urbisaglia, non ancora toccata dal boom industriale nei primi ’60, e dedicata, ma sempre nel lontano 1936, al Nicola Bonservizi, fascista di purissima fede, di coraggio indomito, che ha santificato la causa con la vita e con la morte, Parigi,1924. L’Innocenti auto fu il colpo da maestro di tuo padre emigrato da operaio nell’industria milanese di via Rubattino, poi specializzato e su su su elevato per merito al rango di caporeparto, dismesso da impiegato, mentre in casa la mamma per anni impiegò il suo tempo e lo spazio dell’appartamento, prima a riempire di sabbia certi isolatori elettrici industriali, poi a incollare fiorellini in panno Lenci su cerchietti fermacapelli di plastica per profumerie popolari. Ricordi benissimo la padrona di quel business, la signora Nunzia, che dabbasso in strada, ma dalla sua Mercedes Benz W 110, scaricava i sacchi di cerchietti e panno pretagliato, li portava su a piedi e poi, con la condiscendenza di chi dal nulla si sia trasformato in padrone, si fermava a prendere un caffè, a fumare una sigaretta e a parlare di uomini mentre la mamma incollava e incollava. Anche tu hai incollato fiorellini.

Dirimpetto al vostro, in un appartamento da cui arrivava incessante il battere di tasti di cui non sei mai stata curiosa, viveva una maestra tedesca di pianoforte, elegante secondo te da perdere il cervello, le gambe fini nelle calze velate e coi piedini sottili sottili calzati nei loro mocassini ma come in scarpette di vetro, secondo te. Ricordi l’alternarsi continuo di allievi di ogni età, i pacchi di libri che riceveva, stop. Sapeva il palazzo quand’eri piccina delle cucine delle qualcune famiglie della bassitalia, tra le altre quella di un avvocato qualunque di Giarre, Catania, della vedova di un sottufficiale dell’aeronautica brindisino e di un maresciallo capo della Finanza da San Lucido di Calabria con quattro figli che vedrai tutti, nel tempo, avviarsi alla laurea in Legge o Economia. La rispettabilità e il decoro dell’edificio sono toccati oggi da aggressivi aromi orientali e presenze esotiche. L’ascensore è fuori dal palazzo, aggiunto quando un numero sufficiente di affittuari si trasformò in condòmino e da condòmini, non tutti qualcuni, in affittuari di studenti. Del resto là dove un tempo si aprivano una latteria a destra e un fornaio a sinistra, oggi di fianco al portone anno XIV c’è una rosticceria cinese e un pizza-kebab. Entrambi gli esercizi, a qualsiasi ora e con grande strepito scaricano senza delicatezza in cortile cassette di birra.

È un orto chiuso l’appartamento di sessantacinque metri quadrati. Ci vivevate in tre, stante che sei sempre stata, in progetto e nei fatti figlia unica. Oggi ci campate in due. In due più gli ingombri a beneficio della mamma, i corrimano, il deambulatore, o girello, di fronte alla televisione la poltrona per anziani o invalidi con la seduta meccanica per alzarsi, le scatole di pannoloni su un carrello che non è mai servito per servire nessun tipo di ospite ma che la mamma, immaginandolo simbolo di un benessere come solo nelle pubblicità, ottenne con la raccolta forzata di figurine dell’Ava bucato e del Kop piatti. Il letto fornito dalla AST, assortito di manovelle per modificare le posizioni all’allettato, alto da terra e molto grande, ingombra tutta la vecchia camera nuziale. Tu una camera non l’hai mai avuta e il tuo letto è ancora nascosto in soggiorno dentro lo stesso divano di quando eri bambina. Sei riuscita soltanto a farlo ricoprire con una fodera di velluto bordeaux. A suo tempo ti sembrò piacevole da vedere. Oggi non sapresti dire. Osservi che il bordeaux c’entra poco con tutto l’appartamento, con i pochi mobili, a loro modo funzionali, vintage direbbe un osservatore ottimista, scompagnati di fatto per l’assenza di uno stile riferibile a una qualsiasi corrente di arredamento. Percepisce il tuo occhio che c’è qualcosa di triste, di vetusto, di lugubre in casa e non sapresti come rimediare. L’Ikea hmm, benché il gusto faccia presto a rivoltarsi contro l’occhio quando si tratta di girelli e pannoloni, non hai risorse estetiche sufficienti per fartela piacere, l’Ikea, ovvero hai quelle di un’attardata, e poi non hai l’automobile. In sintesi estrema : forse tristi, vetuste e lugubri siete tu con la mamma.

Tu che ne sai di sabati del villaggio e domeniche del dì di festa. La domanda è una risposta. Nel corridoio di casa quante sono state, poche, le telefonate bisbigliate a ipotetici flirts, mentre babbo e mamma guardavano la televisione. Non credere, la televisione serve a questo, a fare da specchio specchio di brame inappagabili, e chi compila palinsesti e produce programmi lo sa benissimo. Da molto meno tempo e non si sa con quanto minore potere e volere ma la televisione è come la chiesa, apostolica e romana. Oggi tu hai un’età che di brame ha spazzato via il ricordo ; solo in sogno in chiaro o molto più spesso in forma trasfigurata, tornano a visitarti angeli e spettacoli cui non sai dare un nome e che talvolta proprio per questo ti angustiano, come fossero presagi. Sei persuasa che questa sia la loro funzione, fin da quando alle elementari ti raccontarono la leggenda dell’in hoc signo vinces, o sogno di Costantino. È anche vero che i sogni manifestano non di rado una birbanteria cui far fronte è difficile se non svegliandosi di soprassalto. Alle tre o alle quattro del mattino, ti sveglia anche il russare della mamma. Nell’ipotesi di un sollievo acustico, vai e, anche se questione di tempo si riapre da sé, chiudi la porta a vetri della sua camera da letto, porta nata e installata così com’è dall’anno XIV, innumerevoli volte ridipinta. A quel punto sveglia come un grillo, e siccome non sei né una che legge in generale né in particolare fino a riprendere sonno, te ne stai lì a rimuginare, a voltarti nel letto e rivoltarti nel freddo relativo di questi inverni ultimi, o nella fornace estiva di un appartamento dritto sotto il solaio.

Cuoringola o tenerezze, non ne sai. Non ti sono mancati per il vero i corteggiatori. Ti sei affrancata, così credevi, dalla mestizia del sesso come non riuscivi a immaginartelo possibile tra i tuoi genitori, e hai osato varcare la soglia di appartamenti, spesso non dissimili dal tuo, per un frùcchete frùcchete benedetto il sabato pomeriggio dall’assenza del babbo e della mamma di lui, ignare formiche operaie nel negozio familiare di elettricità e lampadari. Il figlio di quelli è chirurgo all’ospedale Niguarda adesso, è stato sposato, ha divorziato, ha una figlia condivisa, e vi sentite ogni tanto, lui ti spiega i referti, ti consiglia analgesici e colleghi di fiducia. Nessun uomo ti ha sedotto con l’idea di un mondo più gradevole, anche più ricco, in una prospettiva che fosse migliore di quella di una scopata media in un letto medio. Dopo molti tentativi di afferrare il gusto, ve ne fosse stato, di tornare da sola a casa tua per cena o di una pizza in due a progettare il nix, l’immaginario di lieve sterilità dei tuoi anni da donna fertile è arrivato a concludere che il sesso proiettato dalla propaganda come un red carpet glittering di godimenti dovuti, è a dir poco un inganno. Qualcosa nel tuo cuore ti ha bisbigliato, senza ulteriori chiarimenti, che il sesso è, nella prassi, l’inappagato : Scopare, dormire e con il sesso dire che poniamo fine alle bramosie del cuore e ai mille affanni naturali del desiderio. Quindi meglio dormire e, se possibile, dopo aver superato indenni il sapore di minestrina di dado serale con dentro un formaggino, una carota e mezza cipolla. Pia, ti sei detta, da donna fatta ti sei disfatta e altrimenti non hai mai ceduto alla tentazione del dito indice. Per non restarne delusa. Come sarebbe stato possibile, ti sei domandata nei momenti di intimità con un’angoscia impersonale, come possibile che le stesse mani costrette a strofinare piatti e lavare via con la candeggina gore di pippì o chissà dalle mutande di mamma, questo prima dell’avvento dei pannoloni, come è possibile che in qualche maniera siano in grado le stesse mani di procurare il minimo piaceretto al tuo animaletto là sotto, al cólmo del còlpo. Oggi ancora che non hai più vent’anni, le rare volte che le mani ti scivolano sul monte di Venere, che ne sfiorano il tepore e accarezzano la lanugine dell’inguine come premessa, poi, sul clitoride sorvolano e nel sorvolare un’angustia le prende, una noia acida, un non saprei, una stanchezza immotivata, ma solo in apparenza. Tu oltre le apparenze non riesci a orientarti. Così la smettono, le mani, di tentarsi a un piacere di cui non hai nessun ricordo grato e nemmeno, a questo punto, alcuna curiosità.

Non manchi di piccole utili astuzie, Pia, e ti sei costruita il lavoro all’Acitour agenzia di viaggi di corso Venezia, che è poca roba ma nemmeno una miseria eppòi una sinecura oggi che, si sa, chiunque si sposta di qua e di là, da Oslo a Medjugorje, da Berlino a Santiago. Tu in agenzia ci vai in metropolitana, e sbucare alla luce di piazza Oberdan e fare due passi fino a Palestro traverso i Giardini Venezia ti dà chissà se la sensazione di passeggiare per un Prater. Peraltro se col girello la mamma si aggira in tondo nel suo mondo di un tempo, il fatto è che non vuole nient’altro e si lamenta della sua non volontà, tu, in treno anche se per pochi giorni, sei stata fino a Firenze, in vacanza qualche volta ad Osimo (Ancona) dalla zia e hai visitato Recanati e Urbisaglia ; ti piacerebbe andare a Roma e Gerusalemme e Terra santa benché,  tutti i viaggi non essenziali sono attualmente sconsigliati in questa zona. In ogni modo hai begàto, fatto e disfatto, hai lottato uguale a una lupa per i cuccioli finché alla mamma, ed è sufficiente a un buon vivacchiare, insieme con la pensione di reversibilità è stato concesso l’assegno di accompagnamento. È un diritto, è pure vero, ma c’è che nulla in Italia è del tutto un diritto o altre volte lo è, però con dei ma e dei se velati, e con questa vaghezza e impredicibilità del diritto sei riuscita a batterti. Oh, i ricordi della commissione medica, sospettosa di inganni, che hai affrontato a testa alta e muso duro. Ma poi, ullalà la soddisfazione di leggere invalidità permanente cento per cento nella lettera di concessione e di vedere nell’estratto conto l’accredito mensile dello stato. Sai benissimo che sei stata tenace e attenta a produrre referti e documenti sulle condizioni della mamma, e che sei stata fortunata come e dove altri non riescono e magari in situazioni più gravi. Avvisti l’ingiustizia, persino l’abuso ai danni degli altri ma ti permetti di fregartene, dopotutto non vedi che cosa ti sia stato mai regalato a parte forse il possesso di un appartamento che vabbè, certo è che oggi venduto a un funzionario di banca tarantino per impiantarvi la figlia che studierà al Politecnico forse sei anni, renderebbe una bella montagna di quattrini, tale che, tu fossi sola, potresti andartene a vivere un’esistenza, del tutto differente dall’attuale, in qualche isola del Pacifico che ancora non rischi di andare sott’acqua. Forse. Madera hai letto che offre mari e monti in senso proprio, naturale e fiscale, per chi volesse andarci. Madera by the way è nell’Atlantico, Pia.

La mamma è destinata a peggiorare, lo sai benissimo ma ignori questa cognizione, avrà può darsi un altro ictus e allora sarà dura molto più di adesso accudirla in casa.  Hai accertato che il costo di una RSA dove lasciarla morire giorno dopo giorno sarebbe proibitivo e ti priverebbe della pensione e dei tuoi risparmi, ma meno assai la sua morte istantanea. L’immaginazione corre a un altro ictus assassino o a un infarto preciso come una ghigliottina. Tuttavia è un pensiero che insacchi, tuttavia hai fatto un conto delle spese, tuttavia per tua fortuna e per le tue strazianti economie, sul conto dove ti versano lo stipendio hai accumulato un risparmio di 23.650 euro e settanta centesimi esatti. Il funerale comunale costa 1389 euro, la cremazione 319,43 euro, al minimo della cassa che tanto va in fumo pel camino del crematorio di Lambrate e che, guarda la fortuna, è poco distante da casa, là oltre via Feltre, cinque minuti ; con più la marca da bollo di 16 euro il  totale è di 1724,43 euro, a parte l’obolo di forse 150 euro alla chiesa, mica quella orrenda dell’Assunta o peggio del Santo Spirito, quella bella di San Martino perché non te la sentirai di far mancare alla mamma la giostra di una messa nella chiesa che da giovane le piaceva, anche se è evidente che, tu non lo facessi, lei obbiettare non potrebbe una cippa. La tua religione è basata su queste intese per assurdo.

Non frequenti, ti secchi e t’annoi alle messe da più che da un pezzo, e al contrario dei tempi della tua prima comunione hai smesso di credere nel buon dio che vede e provvede da lassù. Piuttosto sei convinta, senza azzardarti a definirlo tale, che sia una bella carogna, e cananèo o cartaginese un Moloch, questo nome lo ignori ma fa lo stesso, una carogna che finora però ti ha garantito di barcamenarti a furia di una specie di terapia del bastone e della carota, un padrone oltre i padroni, che, nel pasticcio di idee che ti accomuna a tante e tante persone, ritieni sia meglio tenersi buono. Non sai insomma come trattare con uno che oggi ti sventola uno stipendiuccio e domani ti inchioda a una paralisi, a un cancro, a una maledizione o ti stende sotto una Bmw che passi col rosso, e morire sarebbe il male minore. Ma in ciò sta il potere della superstizione, nel tenerti sulle spine, adombrare sempre che magari Lui ma va’, ha le mani pulite, che il lavoro sporco lo fa un altro e più in gamba, il diòvolo, sicché con Lui il tripartito, di dèi ce ne sarebbero quattro, più due assunti a destra e sinistra e senza contare i bagaglióni di angeli e dèmoni. Una millefoglie che ti ha sfiorato, solo sfiorato. Capisci che vivi con la paura dell’aldilà senza che vi sia tuttavia un aldilà, immagine pneumatica questa, concava, un buco nero super assorbente che ti spaventa di sicuro più del nulla, a convivere con l’idea del quale, bè solo pochi eroi riescono. Metti Leopardi, quello del pessimismo, ricorderai la gita a Recanati.

Sotto casa nel quadrilatero tra via Pacini, la lunga allée di via Golgi e l’ombroso viale Argonne, da piazzale Susa, ma c’è chi scommette da viale Corsica via per viale Romagna con le sue saettanti filovie alla decorosa Piazza Piola e oltre per il bel viale Lombardia sfrecciano ogni giorno vestiti nuovi e nuove Renegade, Avenger e Defender. Le ragazze sciamano dal Politecnico. Alcune si tengono per mano e sono carine. Tu ti adombri e tremi. Uomini con stivali camperos in sella ad Harley Davidson ostentano una cortesia dantesca nel frenare alle strisce pedonali e attendere che tu passi e dopo di te, chissà, una donna che spinge un passeggino o un vecchio, è il caso di dirlo a passo d’uomo. Aspettano e fremono sul gas quei generosi milanesi nell’autunno del loro midwest. Tu sonnecchi con una boule d’acqua tiepida sul ventre. Il tappo tiene male e un rivolo d’acqua ti scorre via tra le dita, Pia, lassù al quinto piano. In te si leva una moltitudine di voci. Voci ingannevoli vezzi bugiardi

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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