L’ElzeMìro – Mille più infinito-Persone nella norma 2

 

2ª puntata

Il guaio di questa e di altre storie di cui si sa essere pieno il mondo – ti direi di ritrovare in proposito Céline, sai il grande – dai corridoi delle maternità alle sale mediche in genere, da quelle pei colloqui con i maestri ad altre per i prigionieri, e fin dentro i vagoni dei treni e sulle panchine dei parchetti, tutto nel mondo è storie ; il guaio sta nel fatto che rischiano di diventare situation comedy che, o inducono a uno stracco sorridere, o risultano prive di interesse altro che statistico ; insomma una compilazione di quante volte o quante : alla quarta puntata devi essere un poco-di-mente per continuare a seguire chiacchiere in salotto divenute del salotto. Non si sa come uscire da questi salotti perché un plot comunque si costituisce intorno a una o alcune poltrone salvo non si osi disordinarle o addirittura, bang, eliminarle ; allora la riflessione intorno a questi eventi deve essere di così grande peso e importanza da seppellire l’interesse per la loro costituzione, vabbè vabbè vabbè, che ti devo dire, qui hai a che fare con fatterelli, in questa storia tuttavia, siccome ormai il racconto è cominciato su questo piede, o il piede lo tronchi, soluzione innovativa questa di troncare una narrazione così come in treno, in prossimità della nostra meta, nel bel mezzo di una qualche chiacchiera col vicino ci alzassimo a furia dal nostro posto e via, senza salutare chi ci avesse fino a quel punto gratificato del suo ascolto ; oppure adesso, per educazione, s’ha a finirla in gloria la storia, e quindi ecco tre atti che furono fondamentali nell’epica di Pinìn, passato, presente e futuro.

Atto primo : di carattere iterativo il racconto che Pinìn ebbe e tenne come freccia nel suo arco per colmare il mondo di anelate sciocchezze. Per lo più è lo stesso intento di chi riempie di sé qualsiasi convegno virtuale lo sai, strabordano di quel prodotto interno lordo che è la spuma-di-fesso i social, là dove l’indignazione priva di sostanza politica, la fola diffusa, il blur, i làbari della pochezza, al contrario di quanto tu possa o non riesca a pensare, non sono sintomo bensì metodo. Così Pinìn, dopo averla appresa, in un suo blog titolato con estremismo del banale, mio nonno faceva così, quando fu in grado di scriverne con scioltezza alla tastiera del suo piccì propagandò del nonno la tecnica di cura per il raffreddore, senza escludere a volte la tosse produttiva. Morì farfugliando nella sola lingua che sapeva, un dialetto lombardo di un lombardo borderline, miscela di fonologie di campagna, il nonno di Pinìn, che si vantò, scrisse il nipote, di non avere mai preso medicine per tutta la vita e dei dottori, della loro intelligenza e sapere, a suo dire niente, Sono tutti dei cretini. In caso di raffreddore, il nonno designò quindi il mondo erede del come prendersi cura di sé accompagnati da un secchio o anche da un recipiente di moplen ; e mettersi all’aperto indifferenti alla meteo e sedersi su opportuno sgabello e cominciare con ogni diligenza a stronfiare fuori dal naso il moccio a nude dita e di buttarlo nel secchio il moccio e continuare a quella maniera, una possente soffiata dopo l’altra, fino a estinzione del muco ; di questo era convinto il nonno, e in egual modo in caso di tosse produttiva, che scaracchiare in un secchio avrebbe alla fine esaurito la bagna glutinosa in cui nuotano felici i virus o i batteri.  Ovvia l’assenza di una validazione del metodo da parte di qualche autorità clinica, il medico di famiglia o di guardia o altro. Peraltro il vecchio non prese mai in considerazione la possibilità che non tutti virus cascassero nel secchio apparpigliati ai loro muchi, soprattutto perché il nonno più che alla causa virale era favorevole al vecchio buon detto, ho preso freddo, ma un freddo ( forse ou ciapà un frecc, ma un frecc in originale ma non accertato), da cui appunto secondo lui il vocabolo raffreddore. Dettagli che escludono la verità. Il nonno raccomandava, nella vulgata di Pinìn, di pulire il secchio dopo l’uso, casomai fosse lo stesso usato per il latte. Con quel metodo patriarcale Pinìn passò gran parte dell’infanzia a curarsi le còrize o rinìti che lo affliggevano e dopo fin verso i trenta anni, quando alla fine scoprì che quel tipo di malanno virale, transita senza fallo da sé, sciallandosela in casa per gg. tre o cinque, secondo l’entità del disturbo.

Il secondo atto è in parte il motivo di questo racconto. All’epoca del suo esto, avo o imo compleanno, la datazione è incerta, in un turbigliòn di parenti apparenti e donafferènti, tra torte e cappellini, trombette e tantauguratè – qui parlato tè come la camelia sinensis da cui la bevanda, complemento diretto correlativo di mè, altrove abbreviativo di Montenegro, e del riflessivo sè invece dell’italiano té, mé, sé – ecco che, richiesto chissà e che cosa volesse fare da grande, il Pinìn cittìno rispose sereno e picadór, Il magazziniere… prima… e poi dopo da grande voglio fare lo snàipe. Tu che l’inglese lo mastichi e lo sputi avrai capito che Pinìn intendeva a orecchio lo scritto sniper. Agli ohh ma va’ collettivi, mischiati a pacati sorrisi e a una osservazione concreta, Ma allora vuoi fare il soldato, Pinìn replicò che no, non il soldato e insistette per lo snàipe ; alla domanda di una cara zia, tale Peppi, Giuseppina per la tessera sanitaria e, nell’età sua lieta maestra di scuola primaria, un’intellettuale insomma, persona molto ormai ma molto anziana e priva di rilievo nella storia di ognuno e massime nella sua, sul, Cosa sarebbe uno snaipe, non mediata dal collegio parenti  apparenti, la risposta pronta di Pinìn fu, Tiratore scelto zia, detto con l’approssimazione della zeta inglese in zone e zero, questo prima che Pinìn sciacquasse i suoi panni nei navigli. Qui la zia Peppi si perse non poco e non volle ritrovarsi nella semantica del nomen omen tiratore scelto. Per lei forse suonò come fosse un riconoscimento o l’esito di una competizione scolastica e di più e assai poco riferito all’ambito bellico quanto piuttosto a quello della pesca col trabucco di cui ricordava gli apparati da piccina sulla costa, chiamata appunto dei trabocchi dal suo poeta preferito, di lei la Peppi, il dì-apostrofo-annunzio, che scrisse : proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il trabocco aveva un aspetto formidabile. E così la Peppi distratta si sbafò un altro dei babà au rhum che la festa offriva, per grazia e virtù della napoletana madre di Pinìn, Despìna, mezzosoprano ma privata di voce in capitolo dall’atto di matrimonio e dalla consecutiva indesiderata maternità. Amen e non pensare che alla Despìna quel Pinìn, superati i primi morsi, non piacque. Le piacque che fosse tranciante, preciso, che non volgesse mai il capo, che guardasse in sintesi sempre dritto, pur avendo contezza, grazie a una protesa coda dell’occhio, delle cavallerie che si sa gli antichi strateghi attestavano quasi sempre alla destra o alla sinistra, ai còrnua, o in alto, sui declivi in agguato pronte a catafottersi sugli schieramenti frontali ; gli piacque quel suo sguardo ad ampio raggio, d’aquila o d’àvila estatica chi lo sa. Le piacque che fosse fin da subito motivo di perplessità per i settentrionali terra terra della familia di quassù, invero tutti quei Di Curzio, e di divertimento per i terroni riscattati di giù tra cui lei stessa medesima. Le piacque che, a dispetto della nicaggine fosse, di testa, n’ommenóne .

Il terzo atto fu più tardi ma con un intermezzo esistenziale che vale la pena di raccontare. Ti ricordi di sicuro dello zio professore che suggerì per scherzo che il minimo Pinìno fosse chiamato Ercole, per via della testa cubica alquanto. Ebbene, per un certo periodo Pinìn fu davvero coronato  da un’aura mitica come quella  appunto del piccolo Ercole.  E come quello che nato teppista continuò buttafuori e picchiatore e che facesse fatica bah figurati, Pinìn passò un periodo lungo sì e no, tra l’aspirazione di snàipe e la realtà di magazziniere, ad appassionarsi di serpenti. Cominciò durante una passeggiata con babbo e babbà in vacanza in montagna ; cammina cammina la famigliola, sotto i piedi di Pinìn che trottava piccolo piccolo sul sentiero avanti ai genitori, comparve lenta e grassa una corta vipera. Pinìn non fece niente di inconsulto, si bloccò fermo sulla gambina sinistra, per lasciarsela sfilare di sotto, la vipera e stette lì per alcuni secondi in bilico, con i genitori atterriti all’immaginare entrambi che cosa sarebbe successo nel caso la vipera avesse azzannato Pinìn, dove andare, come precipitarsi,  che fare, se tagliare e con che il morso, se succhiare ma, non fu così. La vipera parve non accorgersi di nulla, o si sentì rassicurata dall’ombra immobile di Pinìn che la lasciava passare ; poi più fulminante di quel rettile, quasi improvvisato novizio di Bruce Lee, da quella sua posizione su una gamba sola come una molla in torsione fu addosso alla vipera, l’afferrò con precisione al collo, qualsiasi cosa voglia dire collo in un vipera, stringendola forte ma forte e la sollevò da terra ; l’animale atterrito spalancava le fauci avvelenate mostrando gli inutili arpioni dei denti. Pinìn corse a un alberello lì dappresso, schiacciò la vipera per la bocca contro un ramo, quella morse per non saper fare altro e, incastrata coi denti nel legno inoculò il veleno nella pianta ; miserabile a vedersi, rimase a torcersi appesa al ramo appena Pinìn, con il sorriso del conquistador, mollò la presa. Il destino della vipera è ignoto, benché sia verosimile che prova e riprova ebbe modo di liberare i denti dal ramo ma, si sa che poco prima mammasuabbella, la Despina, cacciò il più sovracuto degli strilli che la sua storia antecedente e successiva avrebbe ricordato, una nausea improvvisa le torse lo stomaco, le schizzò alla bocca, parve dovesse risolversi in vomito ma vide nero e si sciolse in sé stessa. Il marito la accolse tra le braccia. Ecco, Pinìn avrebbe fatto della caccia ai rettili un passatempo. Le vittime poi le portava a mammasuabbella che, degluttendo ad arte come se nella fantasia fosse costretta a tragarlo lì sul fatto il serpeggiante e lungo quant’era, ma insomma faceva buon viso a cattivo gioco la madre, consapevole che Pinìn avrebbe tollerato assai poco per quel gesto di essere o sgridato o contraddetto. Poi però con la stessa velocità impiegata a scoprirli il Pinìn si disinteressò dei rettili e continuò invece a portare ciottoline di avanzi ai sui favoriti felini liberi e selvaggi che ogni giorno lo aspettavano nel cortile di casa ; con l’appartamento padronale che sovrastava, finestra balcone finestra, finestra finestra, lungo quant’era il magazzeno di famiglia.

Il terzo atto fondante l’epica di Pinìn fu invece questo che ti racconto adesso. E va fatto risalire ai suoi sedici anzi ormai diciassette anni ;  lo so non dirmi che il salto temporale è ardito ma ormai è fatto, e non dirmi nemmeno che ti ha disturbato. Immagina pertanto Pinìn  che per le superiori dopo le medie non ha voluto proseguire, che ha studiato così per dire in un biennio tennico di qualcosa, e che ormai fa il desiderato mestiere di magazziniere per la ditta Di Curzio, anche se manca poco in verità a che lo si associ come e figlio nell’insegna e sulla carta intestata della ditta ; è in motorino fermo a un semaforo durante un giro di consegne. La giornata non è delle migliori, non piove, no, ma è come se l’aria fosse un aerosol acquoso e fa freddo, il luogo è lugubre e percorso per traverso da un viadotto autostradale, piazzale Luigi Emanuele Corvetto, ai suoi tempi avvocato e bonapartista. In questa scenografia a Pinìn si palesò l’amore, o una sua buona imitazione. Una tipa, come ebbe poi a vantarsene, intesa ma non accertata e di lui  maggiore gli chiede se lo interessa. Lui dice che non sa che cosa dire ma sì vediamo un po’ dice e lei gli fa legare il motorino a un palo, prendere dalle apposite valigie di dietro i fagotti delle consegne e se lo porta in casa, il Pinìn non il motorino, lì su di sopra al settimo piano del civico 1, allato del caffè Piazza. L’appartamento è ben messo, ricco in bibelots, piccoli lingam, stampine erotiche giapponesi alle pareti ( ma lì per lì Pinìn non le diagnosticò tali) tende viola e cuscini indiani, incensi accesi, penombre e lassù, la tipa lo svergina cioè, passatagli l’info che, Sai, ha le sue cose, ovvero il suo ciclo, ovvero con definizione priva di sostrato immaginativo ed etimologico, ho il marchese, senza cavarsi i jeans ma nuda dalla cintola in su e con gran trasfigurazione delle chiome nere e delle bianche tette la bella lo impegna in una prolungata suzione peniena ovvero, per chi non teme di chiamare le cose con il loro nome, lo gratifica di una lunga fellatio, fellazione alias pompino, dalla quale pratica lui esce frastornato ma contento. Lei si accontenta, non vuole essere toccata lì dalle parti di Venere anche se Pinìn notò un rigonfiamento, forse in eccesso per un monte,  ma in corrispondenza della cerniera dei jeans. Poi se è vero che una donna, stare a sentire l’orbo veggente e greco Tiresia,  goda nove volte di più di un uomo, boh ma di sicuro in modo distinto, non sappiamo se lei in effetti ne trasse un qualche tipo e misura di godimento e appagamento. Peraltro quando si parli di godimento, jouissance, occorrerebbe indagare una definizione dello stesso, stante che il campo delle sensazioni è vasto, citato, propagandato ma di là dal generico, non saprei dirti se qualche studioso sia andato di poco o per tanto oltre la metafora e la perifrasi nel descriverne la sostanza. Poi da lassù al piano sette del numero 1 di piazzale Corvetto, tra ancora e ancora  baci voraci i due si dettero un appuntamento per dopo qualche giorno ma lei non rispose al citofono. Mai. Più. E a nulla valse, per Pinìn sopraffatto come succede dalla memoria di quel primo incontro, l’appostarsi una e molte altre volte al portone di ferro e pigiare e pigiare il tasto del citofono. Pinìn non riuscì mai a spiegarsene il motivo di quella sparizione. Qualche tempo dopo  però e sempre durante un altro dei tanti giri di consegne in motorino, questa volta in una dimora del centro, dovette portare uno scampolo di ottimo tweed fin su in casa di un noto chirurgo plastico e assessore comunale. Il chirurgo non c’era ma c’era la figlia a ricevere il pacco, detto senza allusioni, e seminuda e di bellezza non poca. Gli disse al Pinìn, Mia madre non c’è abbiamo tempo se vuoi scopare. Lui accettò. Il motorino giù era legato. Pacco per pacco valeva  la pena scopare. La pena valse più e più volte e in molte occasioni e altre dimore e luoghi della vasta città. E la storia non finisce qui.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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