Sta Vampiro di Brabuntza
sempre chiuso in una stanza
una stanza vecchia e oscura
han le donne assai paura
C’erano una volta i bambini di Brabuntza e due e tre c’era, ei fu, il poco noto vampiro. Era un poveretto però dei poveretti aveva l’arroganza, la meschinità e la pretesa del contrario. Che fosse vampiro non era del tutto vero: era vivo, respirava, ai tempi faceva pipì nel vaso, non aveva canini prominenti, mangiava sì molta carne, morta per solito anche se di principio a quella al sangue preferiva gli spezzatini, gli arrosticini, gli intingolini che gli spediva da lontano la sua mamma – le mamme tendono a non vedere il vampiro che c’è nel figlio per evitare di vedere la Nosferatula che c’è in loro stesse – ed è vero che, se poteva non andare a lavorare, di preferenza dormiva sì di giorno ma non in una bara, in un lettino che non rifaceva mai; alcova che era col tempo divenuta cuccia. La sua casetta stava agli argini di una roggia in una puszta di silenzio e abbandono, là dove anche d’estate all’alba galleggiava nei campi una nebbia simile a quella delle paludi o degli stagni, per rendere l’idea a chi abbia visto stagni o paludi. Ciò che avrebbe colpito l’occhio del viaggiatore, caso mai qualcuno si fosse proprio divertito o deciso o fosse stato costretto ad attraversare quella desolazione e soltanto per accorciare la strada tra i ridenti monti lassù e il mare impetuoso laggiù, sarebbero stati i mozziconi, le spoglie, i resti spennacchiati di mal cresciute, abortite e ormai irriconoscibili piante. Da anni nulla di veramente commestibile veniva su da quella che chiamare plaga sarebbe un dolce eufemismo per piaga. Come le croste sulla pelle di un miserabile vagabondo infatti si attaccavano qua e là a quella terra dei capannoni. Alcuni antichi di mattoni cotti in certe fornaci ormai dismesse, altri più nuovi, di ferro e di pericoloso eternit – mai vietato in Brabuntza – : da tutti o quasi tutti uscivano fumi di ogni tipo e colore, anche in assenza di camini.
Ah, i bambini. In quella specie di deserto di stoppie, rogge e antichi pozzi per l’acqua ma senza cammelli, cavalli, muli e carovane, i bambini avevano pochi divertimenti; a parte l’inseguire e ammazzare ogni tipo di animaletto meno veloce di loro, uno di questi pochi era comporre e poi canticchiare strofette derisorie; Così alla buona, dicevano per giustificare – ay ay la coscienza di classe – quei che tra loro di una quartina di settenari riusciva non solo a stonare tutte le sillabe ma persino azzopparne il ritmo. Sempre nell’ambito dell’inseguimento, con queste strofette strafottenti i bambini correvano dietro a chi non se ne poteva difendere o non avrebbe potuto farlo, perché nella Brabuntza antica ai bambini tutto era permesso purché finissero tutta la minestra di spinaci all’aglio che laggiù, insieme con il goulash, era il piatto nazionale. A motivo di ciò i bambini erano tutti caparbi come il ferro e, fuor di metafora, puzzolenti d’aglio. Anche Vampiro – guardate il suo nome è andato del tutto perduto a vantaggio del soprannome maiuscolo – era stato bambino ma in tempi in cui la vena – ah ah ah – poetica dei bambini non si vedeva già in braccio ai genitori. Grandicello e indifferente all’aglio Vampiro era stato da subito impiegato nel capannone di famiglia, tanto di famiglia che quelle costruzioni, brutte, grigie o marroni, erano in Brabuntza chiamate capanómi; per esempio Logrande, Losotto, Dirutto; definizioni che appiccicate a un Gianluca o a una Macaréna costituivano l’identità degli abitanti di Brabuntza: Macaréna Losotto per esempio fu la madre di Vampiro.
Macaréna portava in dote di matrimonio il capanóme della sua famiglia e il marito Gianluca Dirutto quello del suo, che appunto, Fu crollato in un tutto e mai più riconstructo – sillabavano i bambini rincorrendo l’uomo per scherno – ma continuava la sua modesta attività di scatolificio, Così alla buona, tra travi scompagnate e mattoni caduti. Poiché Macaréna era solerte cuoca e aveva di quei ricettari da far paura al vicinato e oltre, col marito aveva messo su col tempo una fiorente attività di pasti confezionati per la pausa pranzo di tutti i capanómi intorno, anche i più lontani, e per il ristoro delle donne dei paesi sperduti – quasi tutti lo erano in Brabuntza tranne la capitale Belakhun – e non toccati ancora dal beneficio dei moderni supermercati.
Ancora piccino Vampiro fu impiegato nel capanóme di famiglia e il suo ruolo durante le lunghe giornate d’inverno e d’estate era di stare intabarrato fino ai piedi in uno svolazzante sciamerghùn – abito tradizionale tra il soprabito del cow boy, la vestaglia e la camicia da notte – cuffia in testa, occhiali e guanti, a controllare la giusta dose di patate e di goulyas – detto gulasch appena fuori dai confini di Brabuntza e spezzatino di manzo al sugo poco più in oltre – e tutte le giuste dosi dei componenti i pasti confezionati dentro pratiche scatolette di cartone stagnato, prodotte nel capanóme del padre Gianluca Dirutto. È bene a questo punto rammentarvi, oh piccoli deliziosi lettori, che tutti questi nomi così simili a quelli cui siamo tutti abituati oggi nelle nostre terre, sono in una traduzione sommaria dall’Urbruntz, insieme con lo Sbrinz le due lingue più diffuse in Brabuntza ed entrambe irrimediabilmente perdute perché sostenute quasi in esclusiva dalla sola tradizione orale e di gesti.
Controllare giuste dosi però non era la vera passione di Vampiro, lo era invece quella del canto. Fin dall’infanzia, Vampiro era stato mandato dai più bravi maestri di canto perché almeno imparasse a intonare qualcheduna delle quartine di bimbi che nel frattempo erano venute in uso. Vampiro si era convinto di avere una voce non solo possente ma invidiabile, superlativa e tale che, per quanto stonasse con metodo e si strozzasse se appena appena le strofe fossero state più lunghe di un quanto, nessuno dei maestri osava correggergliela più di tanto o avrebbero perduto il posto e il guadagno, evento quest’ultimo che spaura tutti i maestri. Per di più, crescendo Vampiro aveva preso ad avere ora questo ora quel teacher in massima uggia. Nessuno dei tali era, diceva, Alla mia altezza – si era anche dato un titolo Vampiro quello di conte che massime gli suonava –; nessuno aveva capito, sapeva, era in grado di insegnare il canto. Anzi Vampiro era convinto che suo fosse il segreto della voce e della musica in genere. È bene qui aggiungere che in Brabuntza non era ancora giunta la novità del temperamento equabile – si legga se mai in proposito in Wikipedia – innovazione in fermento là là tra i fiumi tranquilli e le ragazze dai capelli dorati del principato di Lamandza. – altra terra perduta alla geografia –.
Ora però siamo sicuri a bastanza che la grande maggioranza di voi piccoli lettori starà friggendo come alborella in padella per capire e sapere e scoprire come mai Vampiro meritò questo soprannome. Ebbene le cose andarono così.
Dal principato della lontana Phiumay passò un giorno per kelle terre e killi paiesi di Brabuntza, la bellissima principìssima Prinçisbek, un fior di fanciulla, con la sua fida Rizos, governante tuttofare e, si mormorava, amica piuttosto del cuore che d’altro. Protette da una carovana di militi e cavalli e carrozze erano dirette al granducato di Lotetgar dove Prinçisbek, senza riguardo alcuno per i suoi sentimenti, sarebbe andata sposa al giovane duca stesso. Entrambe le giovini erano ovunque note per la prodigiosa voce che la natura aveva loro dato e non era raro che da Phiumay si spostassero insieme – non senza il conveniente accompagno di armati e cavalli – ora in questo ora in quel Pontevedro per tenere piccoli concerti di canto accompagnate dai più validi concertisti alla moda. Al loro passaggio nella Brabuntza le due furono accolte prima per merito della loro fama poi per quello della loro bellezza ineguagliabile – la bellezza di solito è questione di gusto ed è eguagliata e superabile ma questo è un dato che nelle favole si preferisce trascurare a favore dell’assoluto inarrivabile e vabbè –. Così vari capicapanóme si riunirono e, prima che le due vedettes passassero oltre i confini di Brabuntza, si organizzarono in comitato e chiesero che Prinçisbek e Rizos tenessero un concerto. Accettarono le due, per un compenso ridicolo e a patto che tutta la loro scorta – stava sui mille uomini – fosse nutrita oltre la sazietà dal capanóme della Macaréna, che ne fu anzi ben contenta e certa così di farsi magari un po’ di pubblicità all’estero. Il concerto andò benissimo. Una folla si accalcò alla biglietteria, curiosa di ascoltare qualcuno che finalmente non stonasse e soprattutto di sentire cantare e suonare secondo i nuovi e misteriosi criteri dei musici grammatici di Lamandza.
Anche Vampiro, che allora nessun bambino chiamava così, andò al concerto e, al sentirle e vederle, tombò innamorato di Prinçisbek e Rizos allo stesso modo, nel più noto cioè e comune a tutti i tombamenti amorosi: fu preso cioè da una smania di possesso e appagamento fricativo. Nella notte che seguì il concerto, mentre la scorta sazia e appagata anche d’amore a rate offerto per l’occasione dallo stesso comitato dei capanómi, e mentre Prinçisbek e Rizos dormivano congiunte, come erano avvezze, Vampiro prima penetrò nella loro tenda poi, tappando la bocca di entrambe – non è noto il come – penetrò anche nelle loro più intime e giudiziose nature e a sorpresa e con grande loro stupore ché a tanto non erano avvezze. Ma ne provarono all’istante un languore, uno struggimento falsato dalle molte letture di romanzi cavallereschi. Cavalleresco, Vampiro non sapeva cosa potesse significare – era uomo di studi irregolari, sparsi e supponenti – sicché tra il lusco e il brusco le rapì, come d’uso in Brabuntza, le caricò entrambe su un mulo e le portò al trotto nella sua casetta. Lì, il suo lettuccio sfatto divenne per giorni e giorni l’alcova sforzata di tutti e tre. Vampiro era al settimo cielo. Le fanciulle tanto più in basso d’umore quanto più in alto stava il loro desiderio di fuga strategica; lui le presentò lo stesso alla mamma Macaréna e un po’ meno al babbo, temendone la concorrenza. Pochi giorni a seguire la compagnia dei mille della principessa prese atto del rapimento e, nell’impossibilità di chiederne ragione al comitato dei capanomi che se la sarebbero presa a male, prese su invece baracca e burattini e si mise al galoppo verso il granducato di Lotetgar a chiedere scusa per l’incomodo al granduca e aiuto perché egli si armasse e partisse a riscattare la promesse sposa e la sua serva.
Intanto Vampiro, oltre che dalla libidine fu preso dall’invidia; anche le voci delle fanciulle dovevano essere sue; anche e più di tutte le fanciulle intere o in parte di quella parte; nella convinzione che le voci si potessero rubare o almeno sciuparle visto che a imitarle non sarebbe riuscito. Mise le due povere fanciulle al lavoro nel capanóme di mammà così, Faréte speriénza del móndo della résponsàbilità, si era inventato lo slogan. Macaréna un po’ aveva pena della due ragazze; nonostante fossero d’alto lignaggio avevano difficoltà a inscatolare i pomodori in insalata; non aveva riguardo per loro a motivo di ciò ma solo perché disapprovava i pensieri e le azioni del figlio. Così le aiutava come poteva, assegnando loro compiti adatti, per esempio contare le confezioni di goulash, e mettendo per loro da parte i bocconi migliori di quella pietanza, quelli che non andavano nelle scatole stagnate, ma quelli che erano destinati alla mensa familiare. Per il resto le due erano proprio prigioniere e benché mangiassero del bello e del buono erano infelici, non tanto per il doversi dividere ogni notte e qualche volta anche di giorno nella cuccia di Vampiro – va lì va là ci si erano abituate benché ogni notte sospirassero, dopo, scambiandosi per consolazione e vendetta baci procaci – ma perché la casetta era priva di tutti quei comforts cui la loro condizione le aveva abituate e poi e poi e poi si erano accorte che la loro voce aveva preso ad appannarsi e sfumare. Ma Vampiro cercava di convincerle che stavano migliorando, davvero davvero, e tentava di dimostrarlo ricorrendo a bizzarri geroglifici mentali, espediente che gli procurava qualche timido risultato. Nei riposi che gli concedeva fuori dalla cuccia si era messo a far loro da maestro di canto. E con questo risultato magico: in capo a qualche tempo e mentre il granduca si armava e armava un’armata, le due non riescirono più a emettere suono che non somigliasse a quello di due fogli di carta vetrata P7000 strusciati uno sull’altro.
Si prostravano così le meschine ogni giorno ai piedi di Vampiro implorandolo di restituire loro la voce; egli però, all’un tempo rigoletto e jago, rispondeva che era, Ben quella la loro voce – una specie di raspo o ridacchio o rantolo tra sordomute – esclamava e rideva a garguglia e come, Ah ah ah ah, additando loro il lettuccio, Oh oh uh uh. Ridotte a schiave della cuccia di Vampiro le due passavano giornate intere a guardare con rimpianto i loro libri e quaderni di musica, afflitte e prive di speranza. Un tentativo di fuga finì male. Poco abituate ad andare a piedi, i loro piedi incespicarono prima poi si ferirono in mezzo ai campi di stecchi sfiniti del paesaggio brabuntzano. Vampiro le ripescò, le curò lui con certe erbe del suo orto, ma ne approfittò per farle stare ancora più a lungo e il più possibile sdraiate. Finché.
Finché il granduca, che intanto aveva invaso la Brabuntza con le sue armate a cavallo, messo sull’avviso dalla stessa madre di Vampiro, dalla Macaréna – circa il modo le cronache insistono nel definirlo rocambolesco – il granduca non scoprì la casetta solitaria di Vampiro. Questi scappò – narrano alcuni per il rotto della cuffia – e a lungo fu inseguito dalla principessina e da Rizos e dal granduca e dai militi di Lotetgar armati di ogni arma, bastoni soprattutto, e decisi a fare giustizia, cioè a giustiziare Vampiro. Egli sparì rapido su su per gli aspri bricchi di Brabuntza; alcuni specificano che anzi varcò colli, forcelle e palù per isolarsi dove non si sa, in una capanna nei pressi di un lago ghiacciato d’inverno e d’estate. La tradizione in Urbruntz tramanda che alla fine anche il suo cuore ghiacciò. E con il cuore di ghiaccio i vampiri si sa muoiono per lo più.