L’ElzeMìro – Favolette brechtiane_Il tango

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Parte prima

C’era una volta… ma insomma che cos’è mai che adesso non c’è mai, domanderanno i piccoli lettori, e la risposta è che c’è e non c’è, che dipende da quel che c’è stato, moltiplicato per sé stesso; ma è un discorso lungo che esula dal raccontare semplice e puro senz’altro motivo che il raccontare. Allora c’era una volta, anzi c’erano Lui elettricista in teatro ed Elle ballerina in teatro. E c’era un’opera in prova al teatro, un’opera tropicale. Lui era appollaiato su un alto scaleo a puntare i proiettori di prima quinta sinistra, lato corte del palcoscenico che dava sul cortile del teatro con i suoi attacchi per le lance dei pompieri, distinto dal lato strada, appunto sulla strada che su quel lato del teatro correva… si dice così il perché non si sa, quando è noto che le strade stanno per solito ferme e di correre non danno nemmeno l’impressione.

1.

Elle era lì ai piedi dello scaleo, poco discosto da una quinta dipinta a larghi fiori e felci tropicali, e intenta a strusciare le scarpe di carattere nel cassettino della pece per non scivolare. Ebbene per la sorte creata da un lampo del suo collo che distese all’indietro spostando la vista in alto Elle da giù si accorse di Lui lassù; e lui vide lei dall’alto dello scaleo dove stava appollaiato, per effetto di un movimento simile ma opposto del collo. Risulta che per un attimo ad entrambi tutto parve loro rallentare intorno ed attutirsi; sfumarono i rumori, il ritmo tipici del prima di una prova: un residuo martellare in fondo palco, dei comandi concitati, forse irritati, uno struscinìo di chissà quale marchingegno di scena, uno scarrucolare di carrucole; si allontanò persino l’occhio del pompiere di guardia attento, più che all’eventualità di scintille tra il cordame e le tele, la carta delle scene e le pinze di contatto nelle cassette elettriche, alle ballerine e alle loro gambe – le ballerine sono gambe loquaci come attori in trattoria dopoteatro – e ai loro irresistibili e liberi seni mentre in quinta, fuori scena per spiegare, si aggiustavano qualcosa, una calza, un ciuffo, una spilla e ciabavano tra loro. La norma. Forse Elle ebbe l’impressione che i suoi piedi si muovessero tre volte e più lenti del tempo utile per impeciarsi. E Lui ebbe l’impressione che le sue mani girassero la manopola dello specchio nel proiettore come il colibrì si libra a mezz’aria. Elle aveva capelli neri avvinti nella crocchia  d’ordinanza, occhi grigi – poco visibili nella penombra del palcoscenico – e la figura e le spalle e il busto e tutto, compresa la crocchia tali che anche per strada, nel furore e nel trambusto del traffico, un occhio attento ne avrebbe riconosciuto il ruolo nella storia: ballerina. Lui non era valutabile, da giù a su, ma aveva capelli e scuri nella norma, tratti scolpiti nel legno di una deposizione del XIV secolo, elettroisolanti dunque, brache con la pettorina ma, con l’occhiata dall’alto degli elettricisti, con quell’occhiata la fulminò. Nessuno dei due capì mai il perché di quel ralenti, di quel frenare  dello sfondo come si allontanasse dal piano dei loro due mezzi primi piani. Lui ebbe a dire ai compagni – all’epoca compagni era la parola adatta – che una voce a mezz’aria di qualche centimetro oltre la sua testa – ricorrete oh lettorini all’immagine del colibrì – una voce gli sussurrò, È lei, senza soffermarsi a rispondere alla domanda non formulata ma implicita, Lei cosa è lei. Elle invece pare ebbe a dirsi, Questo non ci voleva, ma non esistono testimonianze attendibili in merito. Entrambi tuttavia, inquadrati con l’ottica più adatta, ossia quella dell’immaginazione, ebbero chiaro senza saperlo che si fosse trattato di uno di quei casi non rari tra le specie animali, di colpo di fulmine ovvero di amore al primo sguardo. Escluso che i due avessero potuto annusarsi come gatti a quella distanza di scaleo, non si può concludere altrimenti che furono gli occhi a fare tutto, da soli, e a stabilire il debutto di una storia che da lì in avanti si srotolò come in un film di un bel bianco e nero pastoso e con tutti i grigi, forse un po’ sfumati ma ben pettinati e tipici dei film di un certo tempo malandato.

Con la sua gabbanella grigio-blu indosso il direttore di scena en lui passant derrière disse a Elle, Tocca a te prendiamo dal tango, ed Elle entrò in scena, e il pianista accennò alcune battute di ritornello, ed Elle andò incontro a una sua designata compagna – idem c.s. – e il coreografo cantò, Euno, due, tre, quattro e, come una coppia di ben istruiti meccani, entrambe le presero a muoversi e la cantante protagonista del dramma dalla sua pedanina prese anche lei a cantare in un bel microfono a stella. Lui lassù avrebbe voluto, ma è supposizione, essere un colibrì e il tango si intitolava Youkalì. Fu così che tra Lui et Elle cominciarono le hesitations, gli sgambetti, le concitazioni, le strette, i non detti, i detti incredibili e creduti,  il profluvio di sguardi, gli inviti, i per sempre e i domani, i galops, le rose e i fiori e finalmente i baci come solo Doisnau avrebbe saputo coglierne.

2.

Il loro appartamento sul parco del cimitero sapeva di buono, di pietra e di lana, di intonaco e sapone, di campagna al mattino, talvolte di panni stesi ad asciugare, in inverno di stufa a carbone. Questo era un miracolo perpetuo che contrastava l’altrettanto miracoloso odore di sudore e cavolini di bruxelles che dagli altri appartamenti si diffondeva su e giù per le scale erte e scricchiolanti dello stabile, impregnandole fino al quinto piano. Il loro. Per qualche primitiva idea di ristrutturazione il pianerottolo era stato murato dal proprietario e chiuso con una nuova porta per la quale si accedeva così a diritto dritti nel loro soggiorno e a destra al’ultima rampa delle scale; quella che un tempo portava soltanto a un abbaino al sesto piano divenuto adesso la loro camera da letto, con una grande finestra tonda che dava sul parco immenso di un cimitero. Grazie a questo solstizio architettonico loro vivevano, diremmo oggi su due livelli, al quinto quello dei doveri, il soggiorno – pure con due finestre sul cimitero – la cucina a picco sul cortile del palazzo dove a intervalli irregolari risuonavano gli zinchi della spazzatura; e con una finestra su una prospettiva degradante di tetti, e di vetrate e di officine; la sala da bagno con il cilindro di ferro della caldaia per l’acqua calda e il lusso del gabinetto in casa, cieco; e al sesto quello dei sogni e dei piaceri. Il gradini della scala s’è detto cigolavano. Ma la porta d’ingresso si apriva e chiudeva in apparenza su un altro mondo, benché non fatto tutte di rose e fiori: col tempo ci furono tradimenti, giuramenti e spergiuri, tentazioni e malumori e infine come in ogni dramma, l’epilogo.

Parte seconda

Accadde che nel paese al confine meridionale, l’antica al-Andalus oltre gli alti monti che avevano tenuto a bada i suoi Mori scoppiò una guerra, guerra civile, tra civili e incivili come la gran parte di quanti affermano il predominio di qualcuno su qualcun altro a dispetto del rispetto. Una guerra come sono le guerre, di sangue e budella che, a un certo momento, cioè quando la maggior parte delle nazioni intorno si spalleggiavano l’un l’altra, Prima noialtri con i nosti interessi di cortile e le nostre paure di beghine , chiamò alla pugna brigate di volenterosi volontari d’ogni repubblica e reame a combattere per la legittimità di quel paese e a beneficio di un po’ di giustizia sociale e di libertà dal bisogno contro dei ribelli assatanati di conquista e sfacelo. Sbaragliati però dopo tre anni di battaglie i partigiani dello stato di diritto, i ribelli sostituirono all’ipotesi della libertà le certezze dello stato permanente di fame e bisogno alimentando dall’ora della vittoria in avanti, quel terrificante Frankenstein che è l’asservimento altrui, con sé stesso per unico motivo e unico obbiettivo: in altre parole basato sul principio comune alle tirannìe del io voglio e comando ( e uccido) perché posso. Alla battaglia dei giusti sentì il bisogno di unirsi volontario anche Lui così che Lasciò Elle a meditare solitaria nella Groenlandia del suo cuore trafitto dall’angoscia della separazione. Ogni separazione va ricordato è una morte in acconto senza il beneficio dell’estinzione del debito. Sola in casa, quando non era alle prove di uno spettacolo o sul set di qualche piccolo film – se ne producevano molti in quel tempo per lo più di notte perchè gli attori e le maestranze erano gli stessi che lavoravano nei teatri – sola in casa Elle canticchiava spesso il tango di Youkalì che tormentandole la memoria le induceva inarrestabili malinconie, e lacrime e disperazioni. Ma più lo cantava, più aveva voglia di cantarlo ancora e ancora e ancora senza potersi liberare dall’ossessione di quel motivo, di quel ritmo struggente e dall’oracolo delle sue parole. O almeno, Elle le prendeva per oracolari. Lui tuttavia tornò, lievemente ferito alla testa, ma con le cicatrici più dure nel cuore. Intanto però – difficile non incorrere nei luoghi comuni della retorica spicciola – grosse nubi nere, rulli di tamburi e squilli di trombe e clangori di un’armata nera ancora più nera di quella che aveva calpestato il suolo – altro vezzo retorico – e non solo della guerra civile e fiamme di guerra, ma un’altra e colossale, si appressarono da Est sul paese, il loro stesso di Lui ed Elle. E le nubi rovinarono in tempesta. E il paese combatté un poco e poi, come un bambino che la furia e i pugni di un più grande prepotente paralizzino, capitolò e fu occupato. Cominciarono anni di malvagità, carestie, botte, torture e delazioni. Lui et Elle continuavano a lavorare nel teatro. La paga era ridotta più dalle tempeste ormonali della finanza di guerra che dalla cattiva fede delle amministrazioni, il quotidiano una fatica di astuzie faticate. I baci l’unica cosa non stentata.

Finale-Epilogo

Successe che un male oscuro attaccò dall’interno quella vitarella di cinematatografo sentimentale. Elle si ammalò, di un male traditore. Fu intrapreso un lungo percorso di cure ostacolate dall’incomprensibilità del male, si arrivò a dirlo  isteria, ma l’isteria non affila i muscoli delle gambe, non li rende una lama che si dilania da sé stessa; il camminare  diventò via via impossibile e prima ancora il danzare. Elle non ci riuscì più e questo le provocò, di là da quelli alle gambe, dolori che difficilmente voi piccoli lettori potreste immaginare. Ché i propri si subiscono, gli altrui si compatiscono in quanto non costa nessuno sforzo di immaginazione e anche riuscendovi, lo sforzo non porterebbe a nessun beneficio. Come fu come non fu Elle  ormai in carrozzina fu anche portata dal più grande psichiatra della città. Lo psichiatra sospirò, guardò, esaminò, tastò, punzecchiò, domandò, si accigliò, mormorò delle ipotesi il cui lato meno oscuro illustrò a Lui: suggerì una cura ipnotica. Lui intraprese una lunga stagione di lavoro sfrenato, turni in più e straordinari e notti sui set che nonostante gli arresti, le razzie e le tessere annonarie si continuavano a girare. Tutto per pagare quella e altre cure di ogni tipo.

La domenica o quando era di riposo, Lui adagiava Elle nell’acqua ben calda della vasca da bagno, la lavava, la pettinava, le massaggiava le gambe inutili, strofinava quel corpo tanto amato negli asciugamani, lo distendeva nel letto, lo rivestiva di giorno, lo svestiva di notte e, vincendo la ritrosia di Elle lo baciava fin dove poteva, fin dove Elle permetteva che riaffiorassero quella memorie quando era il presente con le sue umilissime e sgradevoli necessità a incombere. Ma nulla valse a qualcosa. Il male peggiorò e divenne ancora più doloroso. Elle uggiolava che mille cani la mordevano; si rese necessaria la morfina, e grazie alla morfina succedeva che di nuovo si abbandonasse a mormorare fino ad assopirsi il tango Youkalì. Fu nel corso di uno di quei sonni sfiniti che Lui fu preso da una decisione atroce. Strisciò sul letto accanto a Elle. La baciò lieve per non svegliarla. Poi si levò in ginocchio accanto a lei, poi prese il proprio cuscino e benché assente da un qualche furore  che rende assassini, come Otello la soffocò. Prima dell’ultimo respiro Elle non ebbe respiro alcuno. Ci furono becchini e bara a salire e scendere dal quinto piano. Lui, solo, aspettava, ma il dolore anche per lui non passò più.

Arrivò un’ultima estate, le strade, i tetti, si riempirono di spari, di fumo di esplosioni e del rombo dei primi carri armati. La città veniva liberata da fuori e da dentro. Lui uscì in istrada scientemente. A dispetto dell’evidenza i prepotenti sconfitti ripetono ossessi gli atti e i gesti cui necessità e ordini li hanno abituati sì che nonostante la possibilità di arrendersi e fuggire verso le loro case, molti insistono nel piacere della morte altrui. Allora un nero cecchino dall’alto di un tetto  vide Lui camminare al centro della strada di sotto, indifferente allo scontro intorno. Aggiustò per bene la mira il cecchino come un orco che si leccasse i baffi e sparò. Lui sobbalzò e cadde con la canzone di Elle se non sulle labbra nel breve lume che il proiettile gli aprì nel cervello. O così ci piacerebbe pensare. C’est presque au bout du monde…
 

Ma barque vagabonde
Errante au gré de l’onde
M’y conduisit un jour
L’île est toute petite
Mais la fée qui l’habite
Gentiment nous invite
A en faire le tour Youkàly
C’est le pays de nos désirs
C’est le bonheur, c’est le plaisir
C’est la terre où l’on quitte tous les soucis
C’est, dans notre nuit, comme une éclaircie
L’étoile qu’on suit
C’est Youkali
Youkàli, c’est le respect de tous les voeux échangés
Youkàli, c’est le pays des beaux amours partagés
C’est l’espérance
Qui est au coeur de tous les humains
La délivrance
Que nous attendons tous pour demain
Mais c’est un rêve, une folie
Il n’y a pas de Youkali
Et la vie nous entraîne
Lassante, quotidienne
Mais la pauvre âme humaine
Cherchant partout l’oubli
A pour quitter la terre
Su trouver le mystère
Où nos rêves se terrent
En quelques Youkali…
C’est le pays de nos désirs
C’est le bonheur, c’est le plaisir
C’est la terre où l’on quitte tous les soucis
C’est, dans notre nuit, comme une éclaircie
L’étoile qu’on suit
C’est Youkali, c’est Youkali, c’est Youkali.

Che in una traduzione approssimativa suoneebbe così:

Fin quasi in cima al mondo
La barca vagabonda
Vagando a filo d’onda
Mi ci condusse un giorno
È un’isola piccina
Vi regna una fatina
Gentile lei ci invita
A visitarla intorno
Youkàli
È lido dei desideri
Youkàli
Delle fortune e dei piaceri
Youkàli
Terra dove si sperdono i pensieri
È nelle notte il nostro lumino
Stella del cammino
È Youkalì
È il culto d’ogni voto onorato
Youkàli
Del bell’amore accettato
È la speranza
Nel cuore d’ogni vissuto
Il beneficio
Non ancora ottenuto
Youkàli
Ma è solo un sogno, un maleficio
Perché non c’è alcuna Youkalì
La vita ci trascina
Pesante e quotidiana
Ma l’anima umana
Di oblio in cerca ovunque
Ha per lasciarsi il mondo indietro
Colto il rifugio dunque
Dei sogni segreto
È una qualche Youkalì

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L’immagine è di Robert Doisneau © – Le baiser de l’Hotel de Ville.

La canzone Youkaly dal catalogo SpotifyDecca
è dall’opera Marie Galante di Kurt Weill e Jacques Deval (Heugel Edition 1934)

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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