L’ElzeMìro – Favolette brechtiane_I gatti regnamti

Feliz Pacuas (Happy Easter), 1989 by Lee Lippman (b. 1949)

 

Tutti sanno della venerazione riservata ai loro gatti dagli Egizi, quelli di un tempo quelli di alto profilo, tale che da una iscrizione rinvenuta nella valle dei Re, ovviamente in lingua locale, si legge, Tu sei il Grande Gatto, il vendicatore degli dei e il giudice delle parole, quelle che presiede i capi sovrani e governa il grande Cerchio; tu sei davvero il Grande Gatto.
Benché sia noto che il gran re Tutmosis fu sepolto accanto alla sua gatta Myt, è faccenda di studiosi, e non del tutto onesti con sé stessi, l’assai poco nota leggenda narrata dallo storico per diletto Eròdio Dìscolo, storico semi sconosciuto e peripatetico ma così peripatetico, all’uso del suo tempo, che tanto camminò e andò e visitò popoli, tende e paesaggi che, cammina che ti cammina, di lui si persero le tracce tra sabbie e suk e pietre e polveri di biblioteche dismesse. Siccome peraltro scrisse poco o niente, sopraffatto dicono i suoi esegeti dall’immensità delle cose da sapere e tacere, c’è da aggiungere che Eròdio Dìscolo fu di principio uno smarrito.

C’era una volta, – parola di Eròdio Dìscolo e forse due forse tre e come al solito difficile a dirsi – ci fu dunque un Piccolo Regno, uno staterello non più grande della Svizzera odierna, anzi meno, sperduto tra gole e colline allora ubertose e, sul mappamondo, assai più in basso dell’alto Egitto, al confine, ma non esattamente, tra le alte fortezze difensive di quest’ultimo e un regno sepolto là in fondo ai diecimila anni, governato da tre re, scelti ogni tanto fra i tre che fossero sopravvissuti a combattimenti dei più sleali, più infidi e crudeli che si potessero immaginare. Enormi di eserciti e armati di ogni genere compito dei re era  tenere quei loro battaglioni e compagnie sempre in movimento, mandandole qua e là ad invadere, saccheggiare e sterminare popoli e regni vicini con la scusa che andassero convertiti al tenebroso culto guerresco, infelice e terribile del Triplice Uguale, Isòskelés traduce il Dìscolo in greco il suo nome originale,  Schoskelepht o qualcosa del genere, eroe cantato di innumerevoli imprese e trasformato in dio di vendetta, di morte e trionfo da appositi sacerdoti. Il culto prevedeva ogni volta, per ogni celebrazione pubblica, che tutti i sudditi, fedeli per dettato regale, bevessero il sangue di un poveretto, poco eroico e scelto a muzzo tra i mendicanti intorno al palazzo regale. Dopo averlo imbesuito, concedendogli per giorni e notti di seguito ogni sorta di giovinette e giovinetti e con vino drogato con il succo di una pianta nota allora nella traduzione del Dìscolo come Cathá – che significa di sotto e rende l’idea del verbo catafóttere –,  e avergli affettato la pelle in sfoglie sottili, al disgraziato si tagliava la gola. Le decine e decine di sfoglie erano distribuite ai fedeli per una sorta di primitivo street food, e i quattro o cinque litri  di sangue, raccolti in una coppona, dati da bere a ciascuno dei fedeli un sorsino; per mandare giù la pelle si capisce. Tempi poco dèditi alla metafora ma  erano quelli.

Sul Piccolo Regno, Micrókratós lo chiama Eròdio, regnava un Piccolo Re, e il regno era uno stato cuscinetto; uno staterello ma così angusto e impervio di calanchi e sbalanchi che il Faraone lo intendeva come sua prima linea di difesa in caso di attacco da parte dei Re del Triplice Uguale. Il regno poi non solo era percorso da cento fiumi impetuosi – dice Eròdio che ipotizza fossero bracci o rivoli di uno o due soltanto  – ma protetto da una fitta coltre di foreste pluviali, altro ostacolo naturale e invalicabile, si credeva, ai carri da guerra, di vettovaglie, armi e donne, indispensabili al benessere delle schiere catafaratte le più fitte.

Nel Piccolo Regno i re erano scelti invece non tra i più ostili mazzolatori ma tra i bravuomini, tra le brave persone allegrette andanti che sapessero parlare con i gatti. Il compito statutario del re infatti era uno e uno solo: conservare la vita agiata ai gatti del regno in generale e in particolare nella reggia, oltre duemila: duemila ciotole, duemila cuscini, lettini, cestini. I gatti si radunavano di notte in consiglio col re e ne indirizzavano gli atti di governo in modo preciso e perentorio – come far cadere un brutto ninnolo da una mensola con il blitz di una zampetta – di giorno invece pensierosi, languidi, assopiti e intoccabili come vacche indiane; nessuno avrebbe fatto il più piccolo torto a un gatto, e tutti si assoggettavano volentieri ai frizzi e lazzi dei gatti, alle loro lune, perché tutti dicevano che, benché mortali, i gatti erano di specie divina e simpatica. Con precisione che cosa si volesse intendere per divina non si sapeva, simpatica sì e tutti nel Piccolo Regno erano convinti, a diversi gradi, che i gatti venissero da un’età remota, spopolata d’uomini e dominata dai felini dal più grande al più piccolo, i gatti infine. Poi come fossero andate le cose con la comparsa dell’uomo, con le sue follie, le sue manie le sue superstizioni  è più o meno noto e fu per questo motivo, secondo una accreditata dicerìa, che i gatti si erano rifugiati tutti nel Piccolo Regno, un po’ perché era facile arroccarsi nell’alto di un tronco o di una roccia e piombargli in capo, all’uomo, chi fosse fosse, ad artigli tesi, un po’ perché da subito i gatti avevano scoperto che tra quelle valli e prati bastava fare un poco di fusa per far cadere in estasi qualsiasi eretto e ottenerne l’ubbidienza più prona. Fuori dal regno non era proprio così che andavano le cose: i gatti dovevano lavorare, cacciare i topi e portarli ai padroni – erano i gatti ad averli, non il contrario com’è naturale – ma correva notizia tra i gatti che alla malaparata avrebbero trovato un rifugio meno comodo, ma quasi egualmente credulone circa la loro origine spaziotemporale, nell’alto Egitto.

Avvenne che i triplici re del Triplice Uguale – che sempre fuor dai bragoni ostentavano un enorme cattiva mentulàzza (phallós-ou) o minchia, inguainata in una vagina di pelle di coccodrillo; e uno portava la mazza per stordire, uno il pugnale per sgozzare e il terzo l’ascia per mozzare – dopo avere conquistato, saccheggiato e distrutto e sottomesso la più parte delle terre al loro sud, per rapirne e raperne  donne, bimbi e ragazzi, e alimentare di sangue di ogni gruppo, al tempo non si badava ad eventuali incompatibilità, il culto del loro triplice, per fottere e far piangere ogni categoria di cittadini o sudditi di quelle terre invase, avvenne che i re si fecero portare dai santi triplici sacerdoti di palazzo una pergamena geografica e studiarono che cosa mancasse di terra da impadronirsi: i sacerdoti indicarono loro l’Egitto e il mare che sta di sopra, e in mezzo il Piccolo Regno. Occorsero ai triplici trenta lunghi secondi per decidere di armarsi e come e partire.

Gli elefanti da battaglia furono caricati di soldati armati di cestini densi di serpi maligne da scagliare in terra tra chiunque ardisse di accettare la lotta. Furono avvelenate le frecce con veleno di amìgdala, furono preparate scale e ponti di bambù per scalare e attraversare, e affilate le asce e le spade il cui compito era solo il finale di ogni battaglia, quello pietoso di finire chi morso da un serpe languisse, chi preso dalla febbre da amigdala delirasse, o chi soltanto non cadesse in ginocchio il capo prono all’ascia o alla voluttà capricciosa di ogni tre volte guerriero.

Una bella mattina di giugno l’esercito si mosse, e varcò il confine del Piccolo Regno. La notizia arrivò con fatica alla reggia, e il messaggero stremato dalla corsa per fiumi e per foreste, per gole e stretti sentieri che lui solo sapeva, quasi stramazzò al suolo ma fu soccorso dai cento gatti della guardia personale del re, dei magnifici persiani di ogni colore, tutti bastardi  di qualche coppia allògena, ma molto vispi, grossi e combattivi. I gatti gli si accoccolarono intorno e sopra la pancia e col solo ronron sonoro di cento gargante rinvigorirono il messaggero che saltò su di botto, scolò un orcio d’acqua e vino e annunciò, Invasione. Ora occorre precisare che il Piccolo Regno aveva un piccolo esercito di Piccolomìni capaci delle più fantasiose figure e facciacce e boccacce e ghigni e smorfie intese a spaventare e se possibile mettere in fuga un eventuale nemico. Ma il Piccolo Regno nemici non ne aveva finora affrontati e allora chissà come sarebbe andata un’ eventuale battaglia. Nel pomeriggio con procedura d’urgenza il re interrogò i gatti a consiglio. I gatti non esitarono e decisero che gli invasori andavano fermati prima che la pace e il riposo quotidiano del  Piccolo Regno andasse perduto. Furono reclutati con un solo miagolio più di ventimila gatti e gattini e gattoni, chi sano, chi guercio, chi zoppo tutti accorsero davanti al palazzo reale. Fu lanciato l’ordine di battaglia. Il Dìscolo descrive qui qualcosa che non potè certo vedere ma egli è molto ricco nel dare fiato alla proprio fantasia, nel descrivere la carica su per tronchi e rami, oltre rivi e strapiombi di quella enorme massa felina. Dietro seguivano i Piccolomìni. I gatti si appostarono nell’unica valle aperta che incuneandosi tra i monti e le foresta indicava la strada al cuore delle fertili plaghe e altopiani del Piccolo Regno. Da lì era inevitabile passare per uno che non avesse come i triplici re la fantasia di studiare alternative, e per fortuna. E così carri e carriole e ceste e bovini e torri d’assalto presero a passare. Quando tutto l’enorme esercito fu infilato nella valle, allegro e certo della vittoria e dei fasti dell’invasione ed eccitatao dal sangue che avrebbe sparso e bevuto e dalle donne dai piccini e dai giovinetti che avrebbe violato, allora suonò nel cielo un unico grande e spietato e ben modulato miagolio, un degüello. Seguì un silenzio ispirato e ventimila testine di gatto apparvero alle facce stupite dei soldati lì sotto. Dopo il silenzio le risate strafottenti degli uomini ma in quella ventimila gatti si lanciarono nel vuoto e piombarono come palle ungulate e dentute tra gli uomini e presero a mordere e graffiare, a strappare a soffiare a stronfiare. E chi tra i soldati si trovò con tre gatti in testa che lo trafiggevano, chi con un nugolo che gli attanagliava la gamba, o la mentulazza, chi aveva cavati gli occhi , chi morsa la lingua, chi strappata un’orecchia. La valle risonava di lamenti potenti e di strilli.  Gli unici a gestire una certa calma in quello scompiglio e del tutto indifferenti alla rovina degli uomini, cui obbedivano per pura nonchalance della loro mole all’offesa, furono gli elefanti che per lo più fecero marcia indietro scollandosi di dosso soldati e cestini di serpenti. Catapultati per terra questi presero a ingozzarsi di soldati e i pochi che riuscirono a sgusciare prudenti tra la folla di gambe e di piedi furono azzannati dai gatti.

Una campanona trainata da un elefante su un carro prese a sbatacchiare frenetica i rintocchi della ritirata. Fu a quel punto che l’esercito dei Piccolomìni  prese a volteggiare appeso a innumerevoli corde sul campo di battaglia e a chi fosse ancora vivo e intatto senza gatti a cappello si facevano smorfie tanto orribili e iettatorie che nessuno, nessuno, nessuno senza graffi potè resistere. L’enorme triplice esercito, o quel che ne rimaneva si gettò in una fuga disperata all’indietro e corse corse corse e solo quando dilagò nelle strade e nelle piazze della capitale si fermò: da lì a un momento le teste e le mentulazze dei re pendevano sconce in cima alla torre principale del palazzo reale. I soldati cacciarono i sacerdoti, licenziati come si fa con il disonesto amministratore di un condominio, raus und draus, il gran tempio dei Triplice smantellato, dismessi i riti di sangue e pelle, il governo affidato a dieci commercianti di merci varie. Tappeti soprattutto. La pace durò finché un Faraone unificò i regni, del basso, dell’alto e del Piccolo Regno che come tale scomparve da ogni pergamena. Il trattatello, per così dire la costituzione di tutte quelle terre, fu suggerito al Faraone  e messo in bella calligrafia con le unghie dai gatti. Eròdio Dìscolo si vanta nel racconto di aver introdotto piccole ma importantissime varianti a quel  testo originale, e questa fu l’ultima cosa che scrisse.

 

L’immagine di testa è di Lee Lippman Happy Easter

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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