L’ElzeMìro – Favolette brechtiane-Il palombaro Olimpìno

1169px-john_singer_sargent_studies_for__gassed__1918-1919_nga_184995                                                      John Singer Sargent –Six Studies for Gassed , 1918/19

 

Poiché le persone vivono si sa come ma non perché, se per una favorevole occhiata della Fortuna o a causa di uno sgarbo fatto alla Fortuna stessa, e poiché non si capisce oltretutto come accada che le stesse persone facciano cose che la Logica non vede, non le vede davvero forse per la svagatezza propria a tutti gli dèi maggiori o minori, o chissà, perché la Logica è una miope sorniona che teme la correzione chirurgica, e dunque i fatti si producono e gli eventi avvengono all’insaputa di lei; a logica pare che sia così. 

C’era una volta e due e tre un palombaro. Olimpìno di nome, egli viveva in un paese ridente, parola che mah, insieme con mozzafiato sta nel vocabolario dei tour operators e degli agenti immobiliari. Ridèntino quanto si vuole  i paesi, però i miei piccoli lettori sanno che nessun luogo può nascondere le liti, gli odii, l’arrivo e le corse nella notte delle ambulanze fino all’ospedale vicino o lontano, i cancri e le orribili morti dei suoi abitanti, infine il male o se si preferisce il fastidio dell’esistenza comune; cose insomma che col ridere è facile non abbiano niente da scambiare. Ciò nonostante il paesino di*** dove viveva Olimpìno, era ridente,  Charmingesclamavano con grandi ah e oh tutti i turisti di lungo corso che approdavano al piccolo porto, protetto da nessuna diga, foranea, si dice così. A scongiurare infatti che le libecciate colpissero le barche all’ancora bastava lo stretto di Toma e Roma – non è dato sapere che c’entrasse Roma e chi fosse o che cosa Toma – custodito da due strapiombantissimi ciclopi rocciosi  tra la punta del paese da una parte, con la sua chiesa a indicare la via più dritta per il cielo e dall’altra, dirimpetto, la schiena alta e boscosa delle grande isola Palminta. Tra l’isola e il paese correva il braccio di mare detto appunto canale di Palminta, con il porticciolo dove non era difficile, secondo stagione, osservare magnifici legni battenti le loro bandiere di paesi lontani, fin della Zelanda, quella nuova, e per cortesia, alla crocetta di dritta dell’albero di maestra quella del paese qui di approdo. Per questi turisti, che sbarcavano in magnifiche tenute da film in costume e per gli altri in tenute da film scamiciati e in braghette panciute, per voce comune confermata dai depliants dell’ufficio turistico, quel luogo piuttosto isolato all’epoca dei fatti, era evocatore e di quieti celesti e di spettacolari mangiate: il macchétefréga olimpico appunto. Da qualsiasi mare arrivasse, chi varcava con sua barca  lo stretto di Toma e Roma, gettata l’ancora incantato e serrati gli ormeggi alle bitte rugginose della bella calata di macigni e cemento, quasi traforato dalla salsedine, trovava ad accoglierlo l’aroma di pani e focacce, l’aspro odor dei vini, e fritture di pesce moltiplicate dalle cucine in fermento di ogni trattoria — Al fiasco di Cesco, Dal Pirata, Il Pesce beato, Da Anita la garibalda —. Nelle buche di quell’artefatto volentieri stagnavano sempre un po’ d’acqua e certi granchiolini in esilio, miti e piccini, facili balocchi per le manine dei bimbi di città in vacanza, che ne catturavano e scaraventavano nei loro secchielli da spiaggia per farne l’oggetto dei giochi perversi cui da sempre gli umani sottopongono ciò che pare offrirsi, per un malinteso biblico,  al loro diletto o alla loro rapina. Sotto i loro piedi il crick del carapace sotto le piante suscitava un’inaudita ilarità. Per solito.

Va bene. Si diceva che Olimpìno era o faceva il palombaro del paese. Fosse più o meno economicamente vantaggioso, di quel mestiere in qualche modo egli campava; sott’acqua c’era sempre qualcosa da posare o rimuovere e quasi tutti i giorni egli si buttava da una robusta barca d’appoggio nell’acqua chiara e fresca del canale di Palminta, con le sue spiagge di piccoli o grandi scogli e sassi e ghiaia – non un metro quadrato di sabbia per capirci – acqua non tanto profonda e limpida in cui egli con santa pazienza scolpiva con uno scalpello i massi subacquei in cui dormicchiavano, o cos’altro avessero da fare, strane creature prelibate per le mense private e delle trattorie già citate, i datteri di mare; lunghi cannolicchi il cui colore soltanto evocava i frutti delle palme dattilifere (Phoenix dactylifera) ma nel cui cavo vivevano d’acqua e vattelapesca certi molluschi segreti. Chi fosse passato in barca l’avrebbe visto là sotto all’opera, Olimpìno, fluttuante con grazia di alga in mezzo alle alghe verdi e rossicce.

Da palombaro bisognava vestirsi, ossia farsi vestire da due serventi. Lasciarsi infilare in un enorme pesantissimo guscio di gomma  dal collare di bronzo, – 80 kg –  i piedi in scarponi di piombo, le mani in guantoni isolanti e infine sulla testa farsi avvitare un casco anch’esso di bronzo con tre feritoie di vetro temprato per guardare davanti, a destra e sinistra. Appena stretta ogni vite di quel costume fantastico i serventi con una pompa vi pompavano l’aria giù giù per un tubo lunghissimo  anch’esso saldamente avvitato al casco. La pompa era una grassa macchina di ferro con due bei volantoni volanti, sui quali si affannavano i serventi a darne la volta senza mai fermarsi o il palombaro sarebbe prima svenuto indi morto. Ora, buttarsi di sotto nell’acqua, assicurati alla barca dal tubo e da una cima robusta, era facile; tornare su dipendeva soltanto dalla legge di Archimede, da quella di Boyle, Dalton ed Henry e dalle braccia intelligenti dei serventi che governavano la risalita di Olimpìno ché dalla pancia del mare non emergesse a pallone – si dice così miei piccoli lettori – cioè pieno di palloncini assassini di gas nelle vene; e issa óh issa óh issa óh, e tira e tira, Olimpìno risaliva piano piano in superficie e poi e poi prendigli la gabbia coi cannolicchi – centinaia, una strage di innocenti – poi issalo a bordo e poi svita e molla e stacca e spoglialo del suo carapace di gomma, di bronzo e di piombo. E dai respira.

Ora egli lui Olimpìno era un tipo schivo e bizzarro, pochi lo ricordavano fuori dallo scafandro, viveva da solo, qualcuno dei miei piccoli lettori penserà in una casetta isolata dal paese, e invece no, da solo sì ma in cima in cima a una casa in centro al paese, all’ultimo piano, pavimenti in graniglia in bagno e in cucina, di legno  nelle altre due stanze. Una era il suo dormitorio, l’altra era vuota se si escludono le cose che via via Olimpìno accumulava senza essere riuscito a diventarne prima il padrone e non sapeva come buttare via. Non c’era la raccolta differenziata allora, ed era già tanto che una furgonetta a tre ruote del comune venisse ad orari a raccogliere, adesso si dice l’umido, allora tout court la pattuma, esposta fuori da ogni portoncino delle numerosi torri affacciate sul mare e incollate una all’altra, una fila di qua e una di là dell’unica strada del paese, la via Romana. Si noti che anche fin lì al paesino di ***erano arrivati a suo tempo i Romani, i più infaticabili turisti dell’antichità, e hic manebimus optime tanto optime che un parvenu di Trastevere, lì spedito con una qualche carica pubblica imperiale, in virtù di tutte le ruberie che la carica stessa garantiva s’era costruito sull’isola Palminta una villa fastosa al colmo della collina che la costituiva più che dominarla, folta di tamerici, pinacee d’ogni sorta, ginepri e allori e altre meraviglie assortite della flora. Poi sul viale del tramonto imperiale la villa era stata devastata e smantellata, in quanto luogo di peccato, e fu un vero peccato che fosse servita alle fondamenta e in pratica a tutta la casa costruita dai servi del nuovo signore dominante egemone. Nonostante il ruolo conquistato e di conquistatore, quest’ultimo tuttavia non si vedeva mai da quelle parti; il prete custode in gabbana nera garantiva però della sua presenza. 

A Olimpìno, nella sua bizzarria, guardandosi allo specchio per radersi la mattina, capitava spesso di pensare; a casaccio, sul qui e sul là, non ci poteva fare niente, se mai la questione girava intorno al chi era a pensare, e non al che cosa pensato; Olimpìno sentiva che pensava, a volte senza sosta ma, nemmeno se per farlo parlare lo avessero asfissiato poco a poco – variante aerea del water boarding – avrebbe potuto rivelare chi fosse il pensatore; inutile dire che spiegarsi il perché di quel produrre pensieri bighelloni, senza una questione da schiudere, era domanda cui rispondere era ancora più che difficile. Impossibile. Vabbè. Levata la spuma da barba da dentro le orecchie e calzato il suo berretto di lana, via via che scendeva al porto dove lo aspettava la barca di appoggio, il cervello gli si svuotava. E alé di nuovo a vestirsi. Olimpìno sappiamo  che proprio  in quella corazza si sentiva a suo agio, nel suo abito naturale, e che l’avrebbe voluta indossare sempre, Questa è proprio roba mia, diceva ai serventi per ridere e perché sapeva che non avrebbero capito il motivo dell’affermazione, del resto nemmeno lui con certezza e, non fosse che all’asciutto gli avrebbe creato seri inciampi e fatica di molta — non va dimenticato che di solito montava una piastra di piombo sul petto e una ricca cintura di piombi al giro vita — Olimpìno nello scafandro ci sarebbe andato anche a Messa la domenica; peraltro non se ne perdeva una; ma non ascoltava il prete che trovava stupido e noioso lì a ripetere sempre le stesse cose, tuttavia, alla stregua di tutti gli uomini di mare, Olimpìno era assai superstizioso; sicché le croci segnate sul petto o per aria e le preghiere e la loro eco rimbalzata alle sue orecchie dai muri di pietra lo rassicuravano circa il passato, il presente e il proprio incerto futuro. Nello scafandro sarebbe andato anche alla posta a spedire le lettere alla sua morosa, donna che viveva lontano, era una poetessa e per questo non si vedevano mai – alla lettera, nessuno dei due aveva un’idea (immagine) precisa dell’altro – ma scrivere si scrivevano anche ogni giorno, lettere in cui per lo più  nutrivano di parole il loro desiderio inespresso. Lei gli scriveva, vorrei che ogni mia pi fosse la pi del pane di cui riempirti con le mie mani la bocca; o altre frasi di questo tenore barocco. Lui, più pratico, dovessi attraversare il mare per scovarli, pescherò datteri preziosi solo per te. O frasi di questo tenore iperbolico.

Nonostante queste abboffate e affabulate, Olimpìno cominciò a dimagrire e giù ad aumentare i pesi alla cintura, finché un giorno, proprio alla vigilia dell’incontro deciso alla fine con la poetessa amorosa  in un alberghetto della vicina città di mare – Albergo-Hotel Prato –  pompa e ripompa nei tubi, ai serventi arrivò d’improvviso un grè grè di ranelle, una fatica ai volanti, un fischio, anzi più di uno, una specie di scoppio. I serventi presero a issare la cima, più in fretta più in fretta, su su su, finché lo scafandro riemerse come un Nettuno senza forchettone e fu tirato a bordo, i vetri del casco tutti appannati;  sgancia sgancia e svita svita, tutti un affanno i serventi sicché sicché sicché grande fu il loro stupore, e più che lo stupore la sorpresa, e per terzo l’orrore; lo scafandro si afflosciò sul fondo della barca. Benché sia da prendere sul serio la notizia che ognuno di noi è costituito al 70% d’acqua, allo svitare il casco di bronzo dai vetri appannati, fuori non ne colò nemmeno un rivolo, d’acqua. Né un soffio d’aria.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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