L’ElzeMìro – Favolette brechtiane-I fratelli d’Otranto

Tapisserie de Bayeux - Scène 55 : le duc Guillaume se fait reconnaître.

                                                                                                                              Arazzo di Bayeux

C’era una volta e due e tre a Otranto un castello che in questa storiella c’entra poco poco e c’erano due fratelli, Lanfredo inteso Laedo e Beppe inteso Beppemmerda, si capirà il perché. Vari casi di famiglia li avevano separati, Laedo aveva scelto di stare a bottega dal sartore del paese, un vero maestro della misura, del taglio, del rivolto e del cucito. Alla morte del maestro, Lanfredo Laedo aveva ereditato la bottega; vestiva tutti, anche i governatori, fossero greci, valacchi o francomanni che si avvicendavano al castello con la loro guardia, la corte di ragionieri e funzionari con le loro molto esigenti mogli; vestiva Laedo infine i morti, non fossero riusciti in vita a procurarsi un abito decente per l’interramento. Guadagnava bene assai Laedo, aveva una bella casetta con orto, giardino e laboratorio, fuori mano un poco verso il mare, quasi a due passi dal castello. E poi Laedo, lo dice il nome era il cantore del paese, il contabile delle fantasie ingenue dei poveretti e il poeta – detto altrimenti laureato – per i signori che, tuttavia e all’infuori delle dovute odi e lodi, si entusiasmavano come qualsiasi notaio, all’ascoltare le leggende antiche e i mirabolanti miti, le favole che Laedo contava così bene accompagnato da quinterna e tamburino. Il sabato di sera non pochi sguardi poi, specie delle dame, erano per lui, Laedo stesso che biondo non era e bello sì e no, e vìa non tanto male da guardare. Non c’era sposa a Otranto che al banchetto dopo il rito non fosse stata accolta da un epitalamio – casto data la religione in scranno – di Laedo; non c’era bimbo venuto per ventura in questo mondo che, dopo la cacciata del diavolo al battesmo, non si fosse rifatto le orecchine con qualche filastrocca di Laedo e soprattutto, non s’era succeduto governatore nel castello che non si fosse beato degli encomi a lui medesmo così ben intessuti da Laedo. Era la sua vocazione e non c’era dama peraltro che…già s’è detto. 

Beppe invece, leggere leggeva a occhio e croce e solo all’occasione – che non cercava – non scriveva e sapere sapeva cose spicce, di poco o di qualche poco conto, per esempio accomodare le ruote a un carro, il cuci e scuci da far star su due muri che stessero appoggiati alla selvaggia, crescere cipolle, cavoli neri e vari frutti, e aveva un incarico pubblico ma ingrato cui, previo bando, era arrivato perché al concorso nessuno tranne lui si era presentato; potremmo dire che Beppe aveva assunto della merda il monopolio. Lontano dal paese infatti c’era un lago; un fiumicello vi entrava da un parte e ne usciva strisciando chissà dove sotto terra, per gravine e per caverne fino a finire in mare ma da lì lontano assai. Il lago era nascosto alla vista da un bosco più che selvaggio molto e molto più che rigoglioso, bosco dove il governatore, l’ultimo l’attuale, bel tipo di nobile di spada, sarebbe stato lieto di andare a cavalcare con la sua bella scorta di cavalieri dalle ricche vesti e colorate e disegnate e cucite da Laedo – a vederli passare un defilé piuttosto che un trotto di guerrieri e poliziotti –; ci sarebbe andato nel bosco il conte governeur non fosse stato per la puzza di cui tutti sapevano il perché, s’intende, e di cui tutti dicevano, Bello il laghetto da farci il bagno però che tanfo e fin qui non più di una constatazione – perché il lago, che oggi diremmo fogna o discarica a cielo aperto, era pieno pieno e ogni giorno rimpienito dei lordumi di tutta la città, castello escluso che per questa bisogna godeva delle tazze dette turche e di un suo pozzo, detto nero, per rendere l’idea. Ogni giorno dunque mediante apposito carretto – un bene pubblico ché la capanna più che una casa in cui abitava era di proprietà di una vedova che nemmeno voleva far sapere  di avergliela affittata – Beppe, andava strada strada a raccogliere, lanciati da ogni finestra in alto o svuotati con cura da ogni basso, i contenuti, solidi e non, di innumerevoli pitali o vasi da notte. Non che da giorno non funzionassero lo stesso, ma siccome Beppemmerda passava solo ogni mattina presto –come si dice alle prime luci – per risolvere nel modo più discreto possibile la cosa, la gente d’Otranto in quei pitali o vasi da notte s’affrettava tutta prima che lui passasse. 

All’alba era da sentire il cigolio sommesso del carretto, l’occasionale raglio del suo mulo al basto, il richiamo nasale e un poco sordo della trombetta con cui Beppe annunciava ai villici il suo arrivo e poi i rumori di persiane spalancate, i riservati buongiorno filomena buongiorno irene, gli sbadigli, i rutti, qualche singhiozzo, gli sguisc gli sguasc gli s-ciak, un concerto, di donne quasi sempre tra loro coordinate per il lancio dai pitali. La più anziane e meno in arnese già a quell’ora tutte ravvolte nei loro costumi scuri da sembrar fantasmi che nulla avessero a che fare con la vergogna d’essere intestini e reni; altre, le più belle, l’aria appagata di sé, del marito o di chissà chi, in camicia ancora, bianca per solito e aperta sul seno non di rado fino all’ombelico, per far vedere che c’era tanta carne fresca tra le pieghe dei lini, delle pelli d’uovo, delle cotonine; le vergini o semplicemente quelle che il caso aveva trascurate, sotto quegli stessi lini a dimostrare le possibilità d’essere di un essere; tutte però a distrarre il viandante mattiniero dal tristo rito; ossia riempire il carro della merda, diceva Beppemmerda. Di deiezioni avrebbe invece detto Laedo da poeta laureato, in attesa che da lui per ultimo arrivasse Beppe; dopotutto erano fratelli. Laedo abitava come s’è detto in riva al mare, e al fresco del giardino già da qualche ora sarebbe stato sotto la pergola all’ingresso della casa, nelle stagioni tiepide o caldette, e in cucina accanto al fuoco nelle altre. Prima di consumare la prima colazione subito subito era suo costume comporre una terzina o una quartina, un’anacreontica o un epicedio, un epitalamio, un semplice sonetto, un’ode, un idillio, l’incipit di un poemetto virgiliano, roba così per sgranchirsi le dita, senza un motivo o un’ordinazione e che incompiute o terminate poi arrotolava e metteva a lievitare – è una metafora – in una cesta apposita. Poi senza meno gli veniva fame e prima che si mettesse a tavola e poi al lavoro a misurare panni, tagliare canape e cotoni, cucire braghe e sottane di velluto, ecco arrivare con qualche precisione il fratello Beppemerda per il suo pitale.

Beppe aveva cura di parcheggiare il mulo e la carretta di un poco avanti la casetta del fratello, poi si fermava volentieri a conversare con Lanfredo che gli offriva da sedersi e sempre da mangiare pane e olive e cacio e vino poco allungato con l’acqua gelida del pozzo, che Laedo aveva sotto la casa, per così dire nella cantina. Lanfredo e Beppe, nonostante le differenze e per le somiglianze, amavano ogni giorno scambiarsi qualche parola inutile, sul tempo, i soldi o altre amenità. Poi una volta il dialogo andò suppergiù così…

– Da tempo mi domando Beppe caro

il perché del vostro mestiere amaro

– Ingrato non direi la gente mi è grata perché tengo la puzza fuori dalla loro case, così che sappiano solo di pizza e caponata

– Capisco bene Beppe mio ma parimenti

egli non è per le narici tra i più clementi 

e chiedo allora al mio talento  se altrimenti

avresti  o no potuto pensare agli alimenti

– No, è vero che la merda puzza immancabilmenti ma considerate fratellone caro ed evoluto che qualcuno deve pur fare un mestiere, di merda consentitemi, e poi ho i miei trucchi…

– Trucchi per gl’occhi di qual genere

è vero che la puzza assale anche le pupille… 

ribattè Lanfredo interrogativo che, s’è capito, lasciando correre a volte sulla rima, prediligeva per parlare undici sillabe, senza trascurare all’occorrenza il bel alessandrino di quattordici.

Ma quali trucchi e trucchi per gl’occhi Lanfredo bello, per il naso, metto sempre questa spugna inzuppata nell’aceto sulla faccia, oppure una mascherina piena di artemisia o menta, dipende da cos’ho per mano, tabacco e sigarette non sono ancora d’uso 

– Ohi ohi fratello mio in ver mi sento Jago 

ché mai m’è capitato di andare  al vostro lago, 

che a tutti pare bello e  assai fiorente

ma, voce comune, piuttosto graveolente

mi piacerebbe tuttavia se sol potessi

– Bè non è difficile è lontano alquanto ma se volete fratellone andate avanti al mio carretto, col mulo si capisce, il mio carro non è che per una persona sola, me, ué voltate a destra e andate, passata l’erma di sant’Apollinare a mancina quella è la strada..

Lanfredo prese e preparò il suo mulo sull’istante e, per evitare il peggio, trottò al carro avanti di metri un centinaio, forse meno; per oscure ragioni, chissà di clima, chissà di venti, la puzza veleggiava non a precedere ma a seguire. I due fratelli passarono così il bosco che era foltissimo e invero più si avvicinava il lago più da un certo tratto in poi la sua presenza si annunciava grave di un odore inverosimile. Ciò nonostante Lanfredo ne approfittò per registrare qualche bello spunto nel taccuino che portava sempre con sé nella borsa – anche gli uomini a quel tempo portavano un borsa, chissà perché nessuno aveva ancor pensato alle tasche per giacche e pantaloni – e intanto stando col mulo al passo, si beava di quel verde folto, fresco ristoro data la stagione, e chiaro.

Arrivarono così alla radura in cui giaceva il lago, grandetto invero, gradevole a vedersi e di gentile forma e con le acque che in verità non erano come Laedo aveva sempre sospettato di color opaco e scuro, ma di un  allegro verde salvia denso – misteri della biochimica –. Beppe scaricò il carretto e poi, mentre il fratello passeggiava provando e riprovando di nuovi versi l’ando, si mise a ripulirne le sponde e il fondo, l’arganello di legno che serviva per sollevarne la cassa, le ruote, tutto insomma, una secchiata dopo l’altra con l’acqua del fiumicino che alimentava il lago e che così impediva che stagnasse. Laedo intanto incedeva un passo dopo l’altro sulla riva… ma il bordo era scivoloso e l’erba fresca di rugiada ancora e non si escluda, altrettanto fresca di un po’ di deiezionenon si sa bene non accertò l’inchiesta – , fatto sta che Laedo cadde in acqua a picco, sprofondò, riemerse, urlò, Nuotare in ver, annaspò, Non so; poi, tra i gorgógli della bocca che affondava, tacque.

Beppemmerda non si scompose più di tanto, capì e si tuffò se possibile a riprenderlo, però… Alla commissione del governatore raccontò la verità sperando funzionasse ad evitare il gabbio o peggio. Disse che nonostante lui fosse accorso, anzi tuffato in quelle acque infide, Lanfredo ahi lui lo aveva visto scomparire nel profondo, Sapete come fa uno stronzo vostra eccellenza signor governatore. Fu prosciolto.

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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