L’ElzeMìro-Favolette brechtiane – Benno

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                                                                                                                Jonathan Leaman-Corronach

C’era una volta e due e tre in un tempo lontano così così, c’era una volta Benno il contadino. Il montanaro a volerla dire con precisione. Benno abitava perché ci era nato lassù sui monti, lassù nel villaggio di Obergroßerberg che dov’è non importa ma quel che è certo è che è lassù, in una terra che va su e giù di continuo secondo di come la si guarda.

Benno era orfano di padre perché il padre gli era morto in guerra. Se dei trenta, dei sette dei cento o dei cinque anni ha poca importanza perché sia detto senza offesa, solo i soldati sanno che le guerre si somigliano tutte; la differenza sta tra l’uso o dell’arco o della mitragliatrice. Costante è l’elmetto che protegge poco ma per carità, andò in guerra e mise l’elmo, dice la canzone, ché dà sicurezza alle teste ed ai cervelli. Questa però, come si dice, è un’altra storia. Dunque dunque il piccolo Benno era senza padre e frequentava però la chiesa, la chiesa del paese di Untergroßerberg che stava un po’ più in basso di Obergroßerberg, la frazione dove era nato e viveva Benno che in chiesa ci andava a piedi ogni domenica con la mamma ed era quasi una gita. Gita culturale diremmo oggi perché Benno amava scendere a Untergroßerberg per ammirare i tesori dentro e fuori della chiesa che da quella di Obergroßerberg differiva perché quest’ultima aveva le pareti bianche di calce e solo un altare dorato e pieno di guglie. A Untergroßerberg la chiesa era un tripudio di  affreschi e di  diverse epoche, tutte passate e lo stile delle pitture ricapitolava tutti gli stili mantenendo un fattore di ingenuità primitiva che li rendeva imparagonabili con l’arte italiana di tutte le epoche, da Cimabue al manierismo e oltre, ma agli occhi di Benno e della totalità degli abitanti di Ober e Untergroßerberg, che dell’arte italiana di ogni epoca ignoravano tutto, le loro pitture ingenue sembravano in assoluto un compendio di istruttiva bellezza. Occhi spalancati, bocca aperta Benno amava quelle pitture su cui fantasticava durante la messa di cui non capiva né un acca né una cappa del suo chiacchierare in latino e di più quelle antiche con i diavoli che uscivano dalle tombe scoperchiate soffiando fiamme e pungendo con le forche da contadini il sedere alle anime dei morti riconoscibili per la tinta pallida e verdastra. Era insieme divertente e pauroso. 

Benno prese a chiedere al prete, che era giovane all’epoca dei fatti, di raccontargli le figure più strane. Apprese di Maria assunta in cielo; eccola lì nella cupola al centro del transetto che guardava ogni domenica la prima fila dei fedeli con quel sorrisino beato che Benno scoprì essere lo stigma della beatitudine in cielo. Giù in terra eccola invece lacrimosa dies illa a piangere di solito sotto la croce di Gesù ma nella chiesa di Untergroßerberg ce n’erano anche nelle due cappellette laterali, da una parte una maria estatica – estatica è un parola che Benno apprese subito a contemplare tra le parole la più efficace per descrivere i propri sentimenti quando non c’era altro modo per descriverli – con in collo un bambingesù; dall’altra una maria lugente – parola che il prete masticava con  soddisfazione uguale a quella con cui masticava all’osteria certi bei pezzi di speck e pane nero – con un Gesù affilato, tutto bucato e anche lui piuttosto verdazzurro steso sui ginocchi. Poi c’erano barchette e apostoli con l’aureola, e uomini armati a cavallo con le spade ritte ritte in mano. Quelle, diceva il prete erano le schiere dei crociati alla conquista di Gerusalemme. Insomma la chiesa era un compendio di storia a voler guardare. Gesù cristo infine dominava in molte scene. Tutte quelle della via crucis che girava torno torno ai muri della chiesa; e poi nella cupolotta dell’abside seduto accanto al padre e al centro di una corona di nuvole e d’angeli, con gran abbondanza di oro brillante.

Poiché gli era stato assicurato che morire è solo un transito dritto e senza fatica verso lassù oltre la cima della Grossbergerstein( mt. 3099) Benno si era fatto persuaso che pure suo padre fosse seduto, ma talvolta anche a passeggio accanto al padre tra le nuvole e gli angeli; da lì il panorama aveva da essere bello alquanto e nessun fiatone arrivarci, come con le mucche su ai pascoli d’estate, là dove la neve delle volte permaneva fino a maggio a gelare. In proposito una volta aveva chiesto se in cielo facesse freddo come nei pascoli alti specie la notte e il prete lo rassicurò, lassù temperatura costante. Del padre di suo padre che lo aveva infilato, gli disse il prete, per virtù dello spirito santo nella pancia di sua madre, Benno aveva tutto il rispetto che riservava al pittore, il restauratore delle pitture nella chiesa, man mano che perdevano smalto e colore. Era bello da vedere come passava da un’immagine all’altra montato in alto come un (?) dio su un trabattello a ruote, e da lì ritoccava un naso, rifaceva una mano, dorava di nuovo un’aureola. Fantastico. In più c’era la meraviglia di un pensiero;  come suo padre aveva creato lui, così il padre eterno, essolui, aveva creato tutti noi ognuno col suo carattere, col suo naso, colle sue mani; ognuno, jedermann – da dire iedermann e non gidermen – col suo libero arbitrio gli diceva il prete che, anch’esso andava restaurato ogni tanto, finché non c’era più niente da fare e allora raus, Hinein in die Höh’, concludeva il prete recitando un pezzettino di una nota canzonetta, Lorelei.

A Benno da principio, l’idea del giardino dell’eden, del dai-un-nome-a-ogni-cosa – ai denti alla lingua alla falce all’aratro alla cote al cavolo al caprifoglio – e mangia a crepapancia, pani e pesci non si sa come già cotti,  ma nemmeno una di quelle mele di quell’albero là in fondo, era sembrata tale e quale al piazzare due burattini in scena, come alle feste del paese nel teatrino ambulante, poi però gli era piaciuta. Qualcosa non quadrava del tutto tuttavia, libero arbitrio, però mele nix, ubbidire al padre di tutti, il soprastante, e alle sue dritte emanazioni, oggi diremmo avatar, in terra, tipo gesù; Quindi tu Benno hai tua madre sopra di te e sopra di lei me vostro parroco che a mia volta ho una madre eccellentissima sopra di me, la Chiesa, per brevità chiesa. Ognuno, jedermann, ha qualcuno sopraccapo che rappresenta il più sopraccapo di tutti, Gott im Himmel; Gott sei Dank grüß Gott. Meno chiara e inquietante assai era la faccenda del figlio crocifisso dal padre sicché Benno, ad ogni buon conto, giurò per prudente convinzione che avrebbe ubbidito al padre dei padri senza deroga alcuna; sarebbe stato in pace con la propria coscienza, soggetto di chiacchiere scoperto per caso accanto al camino, e col mondo e, quando sposò la ragazza più carina del villaggio, davvero un fiorellino, con sua moglie; Friede, la moglie di Benno – da non dire fraide ma friide che vuol dire pace appunto. Non fecero niente i due sposi per non obbedire al padre che si accorsero dettava loro di rotolarsi nel letto quasi ogni notte nonostante le fatiche del lavori, con le vacche, con le oche con le galline, con la segale e il grano saraceno da seminare e da mietere, con le patate e le mele da raccogliere e con l’orto per avere da mangiare e col porco da sgozzare e macellare. Tutti lavoretti. Ma a sera alé. Nacquero così tre bambine bionde, una appresso all’altra ma Friede vederla com’era snella; vai su e giù per l’erta a falciare l’erba e a spingere l’aratro e vedrai che non ti smagli nemmeno un pollice. Vabbè. 

Ora accadde che un ometto nato poco lontano a Unterdenlinden am Ufer dove c’era la stazione dei treni, non essendo né contadino, né pizzicagnolo, né professore di liceo, non avendo cioè nessun mestiere, nemmeno il giornalista, si buttasse in politica e passa un giorno e un’altro e un’altro diventò assessore, borgomastro, presidente di qualcosa, imperatore e così prepotente e importante da prendersi tutto il potere per sé e non lasciarne nemmeno una fetta agli altri che pure erano suoi grandi elettori. L’ometto decise che quel popolo di quieti bovi ed estatici bovari che erano i suoi concittadini aveva bisogno di un che di eroico per sentirsi vivi. Un’illazione s’intende fatta di furba intuizione, che a ognuno cioè, jedermann – da dire iedermann e non gidermen –, unter-unter sottosotto, piace e comandare e essere comandato; e che, tanto più assurdo è il comando quanto più si ammanta di mistero, privilegio, infine denaro, che a ognuno piace e dà soddisfazione. Dopotutto che bisogno c’era stato di comandare a Ercole di fare tante fatiche, domanda, risposta nessuno, però però però. Così l’ometto decise che la guerra, una gran bella guerra avrebbe fatto più che bene ai pii bovi, per risvegliare anche in loro lo spirito dei bovi conquistatori che era stato dei loro antenati Neanderthal. Così fu. L’ometto ebbe fortuna; ai suoi concittadini bastò dire marsch, alla guerra, guerra al mondo addirittura, già allora alquanto grande sicché l’impresa di una guerra così immaginaria, i miei piccoli lettori avranno subito capito che si presentava piuttosto ardua; ma lui niente tutti in trincea, tutti gambe in spalla, che per metafora vuole dire volare. Cioè tutti in cielo, walhalla là là. 

Anche a Benno fu ordinato di smettere i panni dell’agricoltore e di vestire la giubba del guerriero, di prendere il fucile e la zappa anche, ma non per zappare patate, bensì per scavare buche e trincee. Benno nix, un po’ perché Friede gli piaceva da morire e l’idea di addormentarsi e svegliarsi non accanto a lei ma a un mostacciuto caporale, magari qualche ruttaiolo di città, gli piaceva niente. Un po’ perché, le bambine, chi avrebbe attinto loro l’acqua dal pozzo, chi avrebbe curato che avessero more e lamponi d’estate e mele d’inverno. Chi, lui Benno, sicché caro ometto niente da fare, chi se la fa da sé la fa per tre, la guerra. Benno peraltro aveva riguardo per le formiche e i bruchi, per le lumache cui preferiva i funghi, chiedeva scusa e ringraziava il mulo quando lo caricava di farina di grano da portare dal mugnaio; dei tanti mestieri che sa fare un contadino di montagna, mai aveva voluto imparare a tagliare il collo al maiale. Tanto c’era un vicino di buon cuore che aveva dita d’angelo e gran cura nel non far soffrire. O così pare. Dunque Benno alla guerra, a quella guerra fatta per il capriccio di un furbo furbone fannullone non ci volle andare. Così venne la polizia a cercarlo e lo portò in prigione. L’accusa grave era di voler tradire non solo l’ometto ma tutta la nazione lassù tra monti e valli d’or. 

La prigione non era comoda e tutti i guardiani urlavano; non uno che dicesse, È mezzogiorno, senza sbraitare come gli si fossero rotti i freni in discesa. Ognuno di voi piccoli lettori, saprà immaginare fin dove può arrivare il gusto nell’urlare; e nel nuocere: tutti i guardiani facevano a gara con Benno chi a farlo cascare, chi a fargli cadere il piatto mentre mangiava in piedi come una mucca – transeat si disse Benno in latino se lo fa lei lo posso fare anch’io – chi a pestarlo come si pesta un tavolo per rabbia. Lui faceva niente per farli arrabbiare tranne non volere andare alla guerra. Non spiegava loro o non ci riusciva che tutto era perché aveva giurato al signore che lo aveva fatto e gli aveva dato il libero arbitrio benché con prudenza, al padre dei padri e del figlio e dello spirito santo, di stare in pace con la propria coscienza, col mondo e con sua moglie.

Lo vedi che anche tu sei un fanatico, un fanatico diverso ma fanatico e allorae allora e a chi cercava di farlo ragionare con questi ragionamenti, bè Benno lo guardava con gli occhi smarriti , estatici, come si fa con chi non vuol capire o è smarrito ma non lo sa ancora. Intanto, un giorno passa e un’altro, Friede tirava la carretta e non in senso metaforico; senza il marito accanto, e fai la minestra e insegna alle bambine la lettura, almeno delle preghiere, e tosa la pecora e fila la lana, e mieti e semina e insomma fai tutto da te, povera Friede che spesso dopo rigovernato la sera, cadeva addormentata, nemmeno il tempo di spogliarsi che, ronron. E all’alba via andare alla stalla e di nuovo di nuovo e di nuovo. Benno faceva ginnastica a corpo libero nel cortile della prigione e non faceva niente per cambiare quella situazione, era poco strategico, meno ancora tattico, per niente politico. Passa un giorno e passa un’altro lo portarono davanti all’ometto in persona che gli disse, Senti soldato cerca di pensare con la tua testa… La mia testa l’ha fatta dio è lui che pensa al posto mio, gli rispose Benno però. Ah sì, sorrise l’ometto, Allora è perfetta, ti sembrerà sia lui che mi permetta di fartela saltare, sempre che tu appunto non prenda a ragionare. Andarono avanti così un intero pomeriggio e l’ometto non riuscì nemmeno un attimo ad aprire un varco nelle inoppugnabili difese di Benno. No, non gli restò che farlo impiccare. 

Friede era tra l’erba a falciare quando dalla campana a morto della chiesa capì che Benno era passato, come si dice con certa storditaggine, a miglior vita. Poi si massaggiò la schiena dolente e poi riprese a falciare. Il cielo si preparava a piovere.

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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