L’ElzeMìro – Fablìole-Quel che c’è da sapere sugli affetti

NIEces per Fabliole

È il signor Wolframio quello che scende ogni sera dall’ultimo piano, il 29, quello più tra le nuvole ed è un dato di fatto non una metafora; come non è metafora il suo nome ma vezzo del padre (Aarōn, Smirne 1889-Venezia 1974) chimico e razionalista massone, deceduto chissà quando tanto è il tempo dacché è deceduto. Wolframio è cresciuto con quel nome ed è con tutta probabilità prossimo anch’egli al decesso, data per scontata l’età che rivela non in numeri, ché dei numeri ha così tanta diffidenza Wolframio da non aver mai detto a nessuno la propria età, mai, nemmeno quando da piccolo gli scoccavano quelle domande, tipiche della falange adulta, ai propri simili di taglia minore, E quanti anni hai me lo dici. Wolframio ostendeva in quei casi le cinque o le dieci dita, pennellandone l’aria con aria distratta per tante volte quante ne servivano al maggiore di lui per compiere la moltiplicazione o la somma; tale che allo sguerghenzoso un metro e settanta là sopra il risultato dava 25 o 35 o 50, numero in tutta evidenza non congruo con l’aspetto del piccolo Wolframio. Oh che spiritoso non vuoi proprio dirmi quanti anni hai ehh birbone, ma sull’ehh Wolframio, con rapidità di mangusta Rikki-Tikki-Tavi, puntava lo sguardo ora a destra ora a sinistra ora dietro l’interlocutore, in una aperta simulazione di interesse per qualcosa di improvviso e importante, di una minaccia che si presentasse appunto da/in quelle direzioni, e in quelle direzioni il piccolo Wolframio scappava, simile alla bilia che catturata dall’elastico si slancia in avanti e tanti saluti.

Wolframio ha oggi la sua età come tutti, la sua è piuttosto avanzata, non da essere calcolata col metodo del carbonio, ma avanzata. Wolframio tuttavia non è il simpatico vecchietto di un luogo comune corretto politicamente in mitologia; al contrario ha per metodo il tenersi alla larga dai vicini di pianerottolo e in generale dagli abitanti del condominio di cui osserva in cuor suo, come si usa dire, le pochezze, le miserie, le volgarità, la non congruità con qualsiasi ideale umano tranne il peggiore, quale sia sia, a scelta: forse lo stato di borghese, direbbe il critico paleomarxista o il casseur demente. Così Wolframio, per evitare incontri ravvicinati di qualunque tipo, specie nell’ascensore – sterile simulacro di alcova, lo ha definito il Wolframio, e di su-e-giù coitàli ah aha –, lui, una sera sì e una no all’ora in cui la più parte di ogni umanità attende alla propria opra di visitatore del televisore, eccolo discendere lemme lemme dal ventinovesimo piano col suo sacchetto compostabile della spazzatura – ma che vuoi quella di un uomo solo o quasi – giù verso gli anfratti del palazzo dove si abbandonano e celano le sue deiezioni umide, cartacee, plastiche e indifferenziate. Poi Wolframio e questo nonostante l’età risale tutti e 29 i piani. Ci mette un po’ e compie alcune soste calcolate durante la risalita perché sa che arrivano alla Mecca anche i pellegrini zoppi, arrivano più tardi ma arrivano; motto che è eredità di suo padre, non l’unica insieme col nome da tavola periodica e una passione inesausta per la letteratura che lo trasformò in anni antichi in professore di università. Fatto questo che gli ha permesso con qualche agio di tenersi alla larga dagli adolescenti dalle medie e al liceo e dalle loro puzze. Quando qualcuno gli chiese come mai si fosse fatto professore, vista la malavoglia con cui teneva lezione, rispose, Perché almeno dopo i 18 anni quelli si lavano di più e non è raro che usino il dopobarba.

Dunque Wolframio discende e ascende ma non da solo. Da anni Wolframio vive con un gatto quasi vecchio quanto lui e che ha ancora l’abitudine e la forza di accompagnarlo giù per tutti i 29 piani di scale fino al locale pattumiere per poi tornare, e pare si diverta. Al ritorno il gatto, detto Gatto e basta senza altri nomi e attributi intesi felini, si stende dovunque gli aggrada a riprendere fiato. A volte chiede un supplemento di croccantini. A volte no; attende che Wolframio si ponga a leggere in poltrona e lo raggiunge, si stende alle sue spalle sulla cornice dello schienale – nonostante sia piuttosto grosso e lungo –; e dopo un po’ allunga una zampa su una spalla di Wolframio e si addormenta: ovvero raggiunge quello stato di autoipnòsi tipico dei gatti che dormono da svegli o viceversa, producendo fusa spesso potenti: il ronron, sull’origine e il motivo del quale i gatti nei secoli hanno serbato il più assoluto segreto.

Nonostante ciò, al tempo delle sue mele Wolframio contrasse legale matrimonio con una donna, a lui premorta, e di cui conserva un cortese e dolente ricordo. Eguale il ricordo delle tre figlie, da lui ribattezzate, letterariamente, Regan, Goneril e Cordelia. Il mondo di Wolframio, quello in cui vive, in cui si specchia e trova i riflessi adeguati alla sua immaginazione  è, di là dalla simbiosi con Gatto, quello dell’arte degli antichi. Le esperienze che spesso le persone comuni accumulano in vita traendone a volte qualche inutile insegnamento in vista delle loro morti, per Wolframio sono i dati storici, e soprattutto il suo specifico sapere di musica e poesia e di arte in generale, di questo o quell’autore; lui ama Shakespeare peraltro che, insieme ad Omero e Proust cita a memoria, ogni volta più per riassaporarne lo stile, il ritmo, il metro, la qualità del suono, o come dice lui, il tuono: la sostanza misteriosa del detto. Ma, tornando alle figlie perché di sicuro sarai curioso di saperne di più, soprattuto dopo averne appreso il soprannome appiccicato loro dal padre, le figlie non sono esempi di virtù filiale, tranne Cordelia, col soprannome che le sta a viso. Le prime due non hanno perso un attimo della loro miserabile vita di ricche spose di due gemelli, veneziani tra l’altro, per dimostrare a Wolframio – da loro denominato per spregio l’assente ingiustificato – il loro fastidio, per non dirlo astio. Questo sentimento è dovuto in primis al non avere coltivato Wolframio il campo del denaro tanto da lasciare loro una cospicua eredità, e in secundis a quel malinteso originario ma non originale che nell’adolescenza fa di un mite fanciullo una tigre, o, per meglio dire, un serpente pronto a reagire al minimo passo dell’uno o dell’altro genitore o di entrambi e che egli intende minaccioso per la propria egoicità – è così che si forma il carattere, per vendetta: bisognerebbe mettere in guardia i fanciulli contro l’adolescenza acciò la saltino a piè pari –. Le due, Rigan e Goneril fanno a gara nei loro ricchi convivi lagunari – hanno fastosi accomodamenti a Burano e Torcello – nel dipingere Wolframio come il capostipite dei noiosi, dei professorini arroganti, degli inutili, degli egoisti – accusa banale quasi quanto banali gli accusatori, non di rado gli accusati –, dei narcisi tronfi – attributo inadatto a Narciso che, chacun le sait, è massime un incantato, un beato dello specchio, infine: un sedotto e abbandonato – degli sterili dediti alla citazione invece che all’eccitazione – povera mamma povera mamma povere donne capita loro di ripetere in duo ridacchiando coi mariti che invece pare siano da mane a sera ercolìni-semprimpièdi, che delle due, pare, soddisfano pertanto voglie e ghiribizzi senza risparmiarsi –. La povera mamma è morta peraltro scaraventandosi giù da uno strapiombo alla guida di un’auto spavalda lungo un certo stradello di montagna dove perlomeno era richiesto di andare piano e dove lei invece pensò di potere mostrare l’orgogliosa sicurezza dei piloti di rally. Ci vollero tre giorni per recuperare il catorcio e il suo contenuto disossato in fondo a un dirupo senza fondo.

Cordelia chissà perché ha per Wolframio un amore incomprensibile a chi ne osservi dal di fuori le manifestazioni. Che non hanno nulla di speciale. Benché la ragazza, minore delle altre due sorelle, abiti lontano, ma lontano, a Los Angeles, e faccia il fondamentale e impegnativo mestiere di montatrice cinema e sia sposata a una sua coetanea invece che a gagliardi gemelli veneziani, ebbene Cordelia non manca settimana che telefoni al padre. Non si dicono niente di straordinario, padre e figlia, ma di quella assenza di straordinario a Cordelia Wolframio è grato. Gli capita di pensare che l’affetto si qualifichi per assenza di caratteristiche quindi per impossibilità di definizioni – salvo affidarsi alle acque del vocabolario le tasche piene di sassi e con determinazione anglosassone – per il tuffo al cuore che provoca al ricordare, al riascoltare, all’avvicinarsi puro e semplice dell’amato, anche per il tramite inaffidabile di un telefono o, all’uso antico, di una lettera ovvero, come la denominò qualcuno, verbobalìsta. E quando finalmente manca la parola valgono le fusa. Secondo Wolframio queste e alte manifestazioni di benessere sono i segni inequivocabili dell’intelligenza e quindi dell’affetto incondizionato e, in fin dei conti, non altrimenti meglio dichiarato. Le fusa in luogo di un banale ti-amo. Cordelia non ha mai pronunciato questa frase minima nemmeno a beneficio della sua morosa. Ma questa è cosa che il narratore si immagina più che esserne sicuro. Peraltro non è noto se Cordelia faccia o no ronròn.

Cordelia a parte, Wolframio ha dunque come interlocutore diretto il gatto Gatto: lo accudisce come non farebbe un infermiere di Residenza Sanitaria Anziani e lo porta dal veterinario da qualche tempo per via di certi disturbi renali, comuni nei gatti anziani. Gli dispiace di doverlo trasportare in gabbia e in auto (in taxi, Wolframio non possiede automobile) e si rende conto che Gatto assume i caratteri della tigre che c’è in lui nel confronto con il rumore che distingue lo svolgersi della vita umana e di cui gli umani sono adoratori – se incontrate qualcuno che vi racconti quanto lo bèi il chiacchiericcio degli uccellini e il fruscio delle onde in riva, osservatelo quando, un istante appresso, alla lista delle beatitudini aggiunge  la playlist del suo telefono –. Dopo l’ambulatorio Gatto viene compensato con una buona scatoletta, due spaghetti o un filetto di merluzzo al vapore e un riposo nella situazione già detta. Ovvio che come tutti i gatti Gatto abbia a disposizione in casa una numerosa serie di luoghi deputati da cui domina, osserva e conserva il silenzio dell’appartamento come un Buddha contempla senza inquisizioni il mondo e gli basta.

A questo idillio dichiarato pone fine un certo giorno l’aggravarsi della malattia di reni di Gatto. Per un po’ di tempo il veterinario ovvia con iniezioni, che Wolframio amministra con diligenza, e non solo anche con flebo cui Gatto si adegua più che con cristiana rassegnazione, virtù che per fortuna non possiede, con sapiente cognizione di causa. Wolframio peraltro, anche perché non ha mani così ferme, all’infilare la pelle pizzicata di Gatto teme ogni volta di raggiungere con l’ago qualche parte vitale. Ma tutto va per il meglio e Gatto sopravviverà ancora per un po’. Finché non ci sarà più un po’ di niente. Wolframio porterà Gatto all’ambulatorio e lo traghetterà, da Caronte ha pensato ma la relazione letteraria con l’atto di tenere la zampa a Gatto mentre il vet gli pratica le due iniezioni letali gli dà lo stesso se non maggiore fastidio di un moscone in una stanza chiusa d’estate. Gatto lo guarderà negli occhi le palpebre che ondeggiano in segno di commiato, grato probabilmente, finché le palpebre si chiuderanno del tutto.
La gabbietta di Gatto ciondoloni in una mano, lungo la strada del ritorno a piedi al condominio e dopo su fino in cima al 29° piano e dopo fermo in piedi nel soggiorno vuoto del suo appartamento vuoto, Wolframio piangerà senza sosta. Ognuno si immagini il come e per favore lo tenga per sé.

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In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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