L’ElzeMìro – Fablìole-Le uova volanti

In apertura Nieces di Zoey Frank

Per un bel po’ di tempo aleggiò a mezz’aria per il condominio la questione delle uova volanti. Alcuni bambini pensavano che si trattasse di un puro amusement, lo pensavano in inglese ai cui corsi erano tutti senza distinzione iscritti, lo pensavano del pensionato signor Wasserman Bruno. Il signor dottor ingegner Wasserman Bruno loro lo dicevano uasermæn ma lui non si ‘rabiava  perché non era il tipo da ‘rabiarsi per cose così e poi quel cognome gli arrivava da un tempo lontano, ma lontano lontano, quando lì  dove adesso sorge il condominio c’era un campo marzio, cioè un’area di esercitazioni militari per i militari del regno che c’era lì un tempo, regno che era tanto grande e tanto esteso da dirsi imperiale e da comprendere genti di ogni risma, situazione e cognome, e che si spostavano di frequente di qua e di là per cercare ed eventualmente trovare fortuna là dove c’era ; cioè magari a fare mestieri che non avevano mai fatto prima ma per i quali si sentivano in grado di cominciare da capo a vivere una vita. E arricchirla.

Così o quasi così era stato per il bisnonno Wasserman, August che, nella città dove adesso c’è il condominio, era arrivato quasi due secoli prima a bordo di carrozza postale ; poi, più tardi era stata inaugurata la lunga ferrovia che collegava la capitale lontana a fin lì, alla città del condominio. C’era arrivato da contabile August e, poiché la ferrovia prometteva, era diventato ferroviere, capotreno, dopo regolare concorso con regolare assunzione di una divisa, segno di distinzione assoluto a quel tempo in quell’impero, ecco la promessa : la divisa, non ricca ma non povera di distintivi luccicanti ; e siccome tra una corsa di andata e una di ritorno passavano dei giorni, August aveva trovato alloggio a pensione presso una buona vedova – le vedove nelle storie e negli imperi sono quasi sempre buone – che si arrabattava a campare con una modestissima pensione e i proventi che le derivavano dalla professione di affittacamere. La vedova aveva una figliola che attirò quasi subito le occhiate di August, che biondo era e bello e di gentile aspetto,  cosicché tra un viaggio di andata e uno di ritorno la buona figliola, Amarilla risulta di nome, dopo qualche mese di andate e ritorni e di esercizio della nuova ferrovia, si sgravò di un bel pupetto non ancora con i baffi – le principali mostrine di tutti gli uomini maschi che avessero o no una divisa – ma che biondo era e bello e di gentile aspetto e gli fu dato il nome di Augustolo, per far carino e non è che ci riuscisse tanto. August e Amarilla si sposarono subito dopo il breve scandalo che seguì la sorpresa di quella gravidanza prima e, intesa prematura per convenienza, la nascita di poi. Ad Augustolo poi seguirono Magnolia e Rosa, fiori che evidentemente non poterono essere impiegati nell’imperiale ferrovia  – allora la ferrovia era anch’essa imperiale, cioè di stato e tutta virile – così crebbero sartine e nel tempo delle loro abili mani fecero una cospicua dote, si maritarono con dei macchinisti di locomotive e, per farla breve, vissero felici e contente. Augustolo ereditò da August un posto in ferrovia, ma dopo regolare concorso e studi tennici confacenti ; inoltre un violino che aveva appreso a suonare con qualche abilità dal padre August – mentre Rosa e Magnolia appresero le difficili arte della fisarmonica e del canto – e l’attitudine tutta dei Wasserman di dilettarsi, sé stessi e gli altri con spiritosaggini, scherzi birbanti, battute salaci, e fingimenti e giochi.

Lo scherzo che Bruno, il figlio di Augustolo nel frattempo del suo tempo maritato con Maria Maddalena, che Bruno aveva fatto al padre era di essere nato col vezzo proprio del comico e una attitudine impagabile a non lavorare, non nel sentimento comune, ma tanto poca che alla domanda, Cosa vuoi fare da grande, L’attore, era stata la risposta un po’ impertinente. A quel tempo, a tali richieste d’ufficio, la replica d’ufficio e che si conveniva e allietava interi gruppi di familiari e affini era, Farò anch’io il lavoro del babbo, o papà a seconda. Bruno fu ben presto dissuaso dal dare seguito a quel suo proposito – l’attore seguito da interrogativi e risolini sconcertati – e dopo alcun tempo passato a vagare tra i loggioni dei teatrini poveri e le uscite per gli artisti, e a scrivere commedie brillanti consegnate senza esito a mille capocomici,  la sua attitudine di sognatore era maturata e si era spostata sulle ferrovie – alla fine eh –. Vagava per ore aspettando il treno col padre a bordo, come si aspetta da bimbi il Natale che era sempre una gran bella festa allora, parca ma luminosa si diceva e attesa ; il treno arrivava e i due, padre e figlio e viceversa gareggiavano a scacchi nel dopolavoro ferroviario dove Bruno era presentato ai colleghi di Augustolo come prossimo chissà manutentore o persino conduttore di macchine, cioè macchinista. Al ritorno a casa piaceva loro di fare scherzi a Maria Maddalena, la madre, che capirli non li capiva mai – non che fosse stupida ma niente spiritosa sì –  Eh già perché, cercava di concludere persino con uno sforzo di alemanno – la lingua padre di Augustolo – ma sempre interrompendosi  dopo vari istanti in cui la sua testolina prendeva una inclinazione da pensatrice, nel tentativo di proseguire in quella lingua estranea e di principiare un principio di spiegazione razionale del lazzo, del frizzo, del joke, dal calembour, del quiproquo, dell’invenzione che i due mettevano a gara tra loro. Sghignazzando.

Così mentre il tempo passava e Bruno andava persino a scuola e si riavvicinava  il momento della domanda cui, per stringere, occorreva rispondere di nuovo, Cosa farai da grande, Bruno aveva finalmente esclamato, L’inventore. Consapevole però che non era quella di preciso la replica attesa, Bruno aveva aggiunto per prudente alzata di ingegno, Inventerò nuove locomotive così veloci che il babbo non dovrà stare sempre dei giorni tra un treno e l’altro. Questo corollario di precisazione fu accolto con favore dagli astanti – un numero non quantificabile di parenti e altri ferrovieri convenuti in casa Wasserman per i 20 anni di Augustolo in imperial ferrovia  –  il lieve imbarazzo fu stemperato in nuovi bicchieri di birra, di vino e altri alcolici e tutto fini lì, in dolce attesa. Bruno però, benché avesse conservato un gusto pervicace per lo scherzo, non scherzò quando, con sacrifici solenni di Augustolo e Maria Maddalena, partì in treno per la capitale lontana e colà studiando e ristudiando si prese una laurea in ingegneria. Per diletto per di più si dilettava a concepire ogni tipo di macchine, compreso un cavaturaccioli meccanico la cui idea attinse dall’osservazione della realtà : le mani afflitte dalla rizartrosi della mamma Maria Maddalena e che già stentavano ad aprire i fiaschi di vino cui con l’età aveva preso ad indulgere un pochino di più che da giovane ; così tanto per dimenticare forse il filo che, come per tutti, le si accorciava sempre di più in mano alle sue Parche. Bruno portò in trionfo il prototipo del complesso meccanismo cavaturaccioli alla madre che, dopo alcuni tentativi abortiti di far marciare la macchina a manovella, finalmente ci riuscì in un tripudio di ammirazione per quel figlio che non aveva voluto fare il ferroviere da grande ma che era senz’ombra di dubbio un grande ingegnere, chissà un genio come un tale Leonardo ; sicché ora si attendevano locomotive a schiòvero, sognava Augustolo benché ormai prossimo alla pensione.

Passa un giorno passa l’altro e un’altra guerra ancora, dopo una prima conclusa male per quello ed altri imperi, le locomotive arrivarono, ma non nel senso che Bruno si era immaginato ; fu assunto in ferrovia dopo regolare concorso non più imperiale ma ormai repubblicano, e come ingegnere certo, responsabile del materiale rotabile (si dice così), cioè della manutenzione delle ruote e di tutto ciò che su ruote corre ; ma  era un lavoro noioso e ripetitivo cui il suo spirito di primo attore mal si adattava ovvero vi si adattava ma con grandi sforzi interpretativi, alla pari con un attore cui un ruolo stia male, stretto o ostile. Così di notte Bruno disegnava fogli su fogli di meccanismi e di soluzioni sempre più complesse e ardite e brillanti, per facilitare la trasmissione del moto e riduzione conseguente dell’entropia, a macchine grandi e costose, e si impegnava in concorsi dove i suoi progetti riscuotevano il plauso della commissione politecnica, plauso per l’ingegnosità delle soluzioni ma niente di più ; dall’estero arrivavano ormai macchine elettriche talmente magnifiche e potenti che a nulla ormai valevano le soluzioni per rendere più veloci, oggi per capirti diresti performanti, le obsolete locomotive a vapore : lungo le vie ferrate si allungavano i fili della corrente e non più l’allegra – allegra mah – scia di fumo e vapore. Lo studio di Bruno si riempì allora di progetti favolosi come lo stendi-biancheria automatico, l’imbottigliatrice di vino domestica, una enorme lavatrice capace anche di asciugare  e una curiosa macchina da ginnastica per pugili ; curiosamente questa sortì un successo imprevisto e con quella e altre invenzioni mirabolanti come un impianto stereo con venti altoparlanti, Bruno si arricchì ; e dopo un po’ comprò l’appartamento nel condominio.

Non era tipo da sposarsi Bruno e infatti ma, godeva della simpatia di molti condòmini e di quasi tutti i bambini cui le storie di invenzioni che Bruno raccontava piacevano e per il gusto che lui, non ricco ma benestante anziano, ci metteva ad arricchirle e la sapienza di cantastorie con cui le srotolava dinnanzi al suo pubblico di piccini  :  sembravano non proprio favole ma strabilianti escursioni a cavallo di parole come biella, scappamento, frizione, alesaggio, feròdo. Parole incantate che Bruno, erede di quel gusto familiare per lo scherzo che pian pianino si era trasformato in gusto di raccontare per raccontare, faceva volare, volare, volare per le teste ed i cervelli di quei piccoli più disposti ad ascoltarlo, seduto su una della panchine della vasta area verde condominiale lì dove amava fermarsi a non far nulla di diverso dal sognare marchingegni, appicciare loro una storia, o una burla, e nel caso raccontarla. Fu questa l’ultima : le uova volanti. Non si trattò di avere a che fare con una macchina ma della reale possibilità che, grazie ad opportune calcolazioni e considerazioni e abracadabre stilate da Bruno su un apposito quadernetto, che una coppia di uova potesse effettivamente mettersi a volare sospinta da, sospinta da… Bruno  non disse subito, perché non lo sapeva quale forza o trucco o meccanismo potesse imprimere alle uova il coraggio per volare. Ma sorvolò. Fu oberato dalla richiesta sempre più incalzante dei bambini di mostrare loro l’esercizio delle uova volanti.

Nell’impossibilità di sottrarsi al suo pubblico Bruno scese un bel giorno a un’ora prevista alla sua solita panchina e con un paio d’uova, uno spago da legarci l’arrosto, e una matita, grossa, di quelle da falegname per scrivere sul legno. Pieni di aspettative, i bambini seduti nel prato intorno a lui, si scambiavano occhiate stupite al vedere che uova, sì due ce n’erano, ma lo spago e la matita sembrarono loro ben poca apparecchiatura per il temerario esperimento annunciato. Con destrezza di prestidigitatore avvezzo a pubblici difficili ma già incantati, Bruno prese con pazienza a legare un’unica misura di spago a mo’ di cintura intorno a ciascun uovo ; strinse con cura ogni guscio, attento a non spezzarne la delicatezza. Voilà, ora le uova erano incatenate tra loro. Bruno calcolò a spanne la metà dello spago, la pizzicò con due dita umettate di saliva, e avvolse allora il centro dello spago con due giri intorno al perno della matita, sollevò per aria la coppia di uova che penzolarono così  dal filo avvolto intorno alla matita. Studiò bene il gesto da mettere in atto : attenzion battaglion, nel fare questo arricchì l’azione con parole, diciamo da imbonitore o da mercante in fiera – ce n’erano alla sagre paesane in quel tempo piùchepassato. Poi lo trovò il gesto : Bruno prese a dondolare le uova appese al filo con attenzione sempre maggiore, poi provò a far girare intorno alla matita quel sistema. Per un attimo le uova… le uova si videro ruotare come pianeti intorno al sole della matita. Per poco pochissimo girarono davvero poi il movimento stesso le liberò dalle stretta leggera dello spago. Schizzarono così via come proiettili per aria, volarono per un battere di ciglia, poi caddero schiantandosi, nonostante l’atterraggio morbido sull’erba. Per un attimo volarono però, Ecco fatte le uova volanti, concluse Bruno senza un applauso.

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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