Spiazzo antistante l’ingresso signorile del condominio. È una bella giornata di prima primavera, cioè ai giorni nostri di febbraio, quando le lingue si sciolgono a un sole anacronistico come se si sentissero già al lavoro sulle spiagge, forse di maggio forse di giugno. Fa freddino ancora di primo mattino, poi il termometro correrà all’insù, e tre commari, le uniche che non lavorano o non hanno un lavoro dove esercitare il loro diritto alla chiacchiera, si incontrano per caso all’ingresso ; una con il carrellino per la spesa, piuttosto antiquata come genere di commare benché non abbia 45 anni, sciatta nel vestire, quasi da dire che sotto il vestito abbia ancora indosso la camicia da notte, ma del resto la si conosce nel condominio per essere una così, con la grazia di un sacchetto per l’umido. La seconda, una tinta di 50 anni infilata già a quell’ora in tacchi forse del 15, senz’altro del 12, neri lucidi che stringono i piedi senza calze ; la terza è una donna dall’aria intelligente, abito qualunque, scarpe e tutto tirolese. Il soggetto della conversazione, cioè del pettegolezzo è Carolina Mitternacht, una vicina bizzarra che abita al 17° piano e che non parla con nessuno, entra ed esce di rado e dunque, atteso che incontrarsi è inteso per obbligo condominiale, evita, si astrae e perciò stesso ritiene sé stessa un tipo superiore di inquilino. Tu questa domanderai è illazione e la risposta è sì e no. Carolina non si sente superiore ma solo diversa. Scrive. Poi ti dico che cosa…
1ª commare L’ho vista stamane… aspettavo l’ascensore… l’ho sentita girare la serratura della sua porta e l’ha aperta… per un attimo poi… è rimasta lì sul limite mi ha guardata se si può dire guardare il suo fissare con quei suoi occhi di pesce dietro le lenti… ha quell’aria …
2ª Come di matta vestita a quel modo poi come dire per modo di dire con… poi chiaro che è un nome inventato il suo …
1a (interrogativa retorica) Che… (con irrisione) carolina mitternkt …
2a Io dico che è maitarnekt…
3a commare (drastica) Mitter nacht… tedesco (detto con sotti-lissi-missi-ma ironia) care mie… il ch si emette soffiando con la gola come i gatti. Provate…
concluse la terza commare che aveva il prezioso dono di essere pedante e paziente e ragionevole. Noiosa un tantino ma con ragione mise a lezione le due altre facendo loro distinguere i suoni tedeschi di kt, dalla h sonora in principio o muta in finale di parola alla ch soffiata appunto dalla gola, ma dolcemente non da espellere le tonsille, Mitternacht. È utile dire che nessuna delle due altre eccelse nell’esercitazione e anzi, per dirla tutta, in loro insorse il sospetto che la 3a commare volesse fare la maestrina dalla penna atesina, fatto questo che le irritò non poco le due, ma non tanto da darlo a vedere. Ognuna si tenne convinta delle proprie posizioni circa i suoni tedeschi e si separarono in tre ponendo fine a questo sipariettto mattutino.
Poco dopo ad acque ferme Carolina Mitternacht di padre tedesco e madre non si sa, sbucò con prudenza, sua amica di sempre, dalla porta a scorrimento dell’ascensore numero 3 del condominio, quello che lei preferiva nell’opinione che fosse poco frequentato, poco visibile quasi ; mise meno del naso oltre la soglia dell’ascensore, sbirciò a destra e sinistra con l’aria di chi non vuol fare intendere ciò che sta facendo o vorrebbe, la oltrepassò, la soglia, e si diresse rapida verso le porte a molla dell’atrio signorile, le valicò e sgattaiolò lungo un vialetto laterale dell’ampio giardino condominiale, zigzagò qua e là per arrivare finalmente alla strada carrabile, e da lì marciò verso il capolinea dell’autobus che l’aspettava fremendo di motore già acceso. A quell’ora sul mezzo non saliva nessuno, non del condominio, quasi del tutto abitato da persone dagli agiati orari e ritmi di lavoro. Carolina montò salutando di sguincio il conducente che non era più il Tucker che sai, il desaparecido, si accomodò alle spalle del nuovo ragazzo che biondo era e bello e di gentile aspetto ma lei non volle darlo a far intendere. Si sedette alle sue spalle, tirò fuori dalla borsa di paglia un lavoro a maglia ed entrò in una sorta di trance fino alla fermata di arrivo : la biblioteca comunale. Carolina Mitternacht, una mattina sì e una sì si recava alla biblioteca a leggere e studiare : leggeva di tutto, cioè studiava tutti ; tutti gli autori dai quali era convinta, sapeva di potere e dovere imparare ancora e ancora.
Carolina non faceva niente, non lavorava nei termini che al termine lavorare i più, te compreso, attribuiscono, e s’è capito ; è che non era certa di saper scrivere a regola d’arte, per questo leggeva e leggeva e leggeva ; non seguiva un metodo, tranne quello antico di prendere appunti qua e là e di ricopiare una frase, un rigo appena ; era smemorata di natura per cui lasciava che gli autori più diversi la pervadessero sì da lasciarle un alone nella memoria, alone la cui consistenza e motivo e ragione tuttavia conservava con precisione ; poi nel pomeriggio e tutti i pomeriggi si dedicava alla scrittura ; dunque se mai Carolina faceva il niente. L’appartamento era suo, eredità della madre e una pensione lasciatagli dal padre le consentiva di sbarcare il lunario in modo dignitoso. Ma Carolina, se si escludono le spese per i libri, di quelli che in biblioteca non trovava e che peraltro aveva piacere di possedere e guardare in ranghi serrati, ordinati negli scaffali alti e in quelli più bassi delle sue Billy color ciliegio sparse per la casa, per sé e per il proprio sostentamento, una vietcong. Ai bizzarri, anche da fermi in piedi al centro del palcoscencio della nostra attenzione, non si perdona mai la sensazione di bizzarria che trasmettono sempre, con quella stessa disattenzione che mette un attore, di quelli bravi, nel recitare la sua parte senza far capire che è teatro, che son parole dal dove dell’altro, che nulla è vero tranne il falso che, tuttavia, in arte assume e sostiene il ruolo di realtà, di verità di qui e adesso : in altre parole anche la realtà che non esiste nel nostro panino quotidiano è una realtà. Ma questa è storia vecchia mi dirai.
Che il nome di suo padre, Mitternacht, volesse dire più o meno intorno a mezzanotte, l’aveva sempre, fin dalla più tenera età, turbata. Sempre, da subito le era parso un invito o un destino da inseguire, una condizione cui si sarebbe dovuta attenere per ottenere. E Carolina voleva ottenere di essere considerata poetessa. Che cosa volesse dire non lo sapeva, da piccola, se non per grandi linee : una poetessa è una che a dispetto dell’essere donna, cioè di una specie con un suo rango particulare nelle tavole di Mendel, sa scrivere cose che non sono racconti, né romanzi, né novelle, né articoli di stampa o annunci pubblicitari ma appunto poesia. Mica facile eh no, anche se… tra l’essere e l’essere considerati qualcosa passa e staziona quasi sempre un giudizio negativo, non per forza dovuto ad altri ; a volte è il soggetto stesso che fa fatica a considerarsi quel qualcosa oppure gli mancano attributi o strumenti o mezzi che quel qualcosa definiscono : una nave per l’ammiraglio, un goniometro per l’ingegnero, un trapano per il dentista e così via fino alla bacchetta magica per la fata. Ma un libro pubblicato, in dove che nel flyer di inizio o di fine fosse messo in chiaro che quelle parole lì contenute le aveva scritte Carolina Mitternacht, ecco questo strumento, questo attributo, questo mezzo di definizione a Carolina mancava. Benché scrivesse ogni giorno con abnegazione e ogni tanto assemblasse una raccolta più o meno estesa di poesie, benché ogni tanto la mandasse a fiere e concorsi e gare e rassegne, sempre l’inevitabile responso era il silenzio ; eguale restituzione le riservavano le case editrici tranne quelle che le scrivevano lodando immancabilmente le sua opera e che, dicendosi interessate alla pubblicazione, le fissavano un appuntamento prima e le facevano poi una richiesta più o meno onerosa di denaro come contributo di pubblicazione. Qualcuno, al rifiuto di Carolina, in malo modo le replicava, più o meno così, Se un artista crede nel suo lavoro è disposto al sacrificio... e bla bla bla di uomini più o meno marketing, più o meno account a seguire. Più che indispettita, da quelle conversazioni a volte per fortuna solo telefoniche, Carolina usciva ferita e non nell’orgoglio ma nella sua dignità, qualunque aspetto di un persona possa la parola circoscrivere. Ferita e sanguinante, infine un poco depressa, per dirla nel linguaggio facile della vulgata psicologica corrente ; tanto che per un po’ smetteva di seguire i suoi rituali Carolina, si rifugiava, per dir così, nel più bel caffé pasticceria della città e si scialava di cioccolate con panna e torte al cioccolato con la crema di lamponi e torte alla crema coi pistacchi e cannoli. Da quelle dolci escursioni usciva corroborata, forse un po’ ingrassata ma tanto poi mangiava a casa pochissimo, e determinata a non mollare quello che per lei davvero era il suo lavoro ; si ributtava al tavolino e riprendeva a scrivere nel punto esatto che aveva lasciato e il più delle volte individuava la correzione che da tempo sudava a trovare e che zac, in un istante, in quell’istante preciso le arrivava alla penna.
Carolina scriveva senza eccezioni con la sua bella penna stilografica dal pennino d’oro, regalo augurale per un compleanno trapassato da parte della sua ben maggiore sorella, Lazzarella, dieci anni di svario e nota venditrice di tappeti persiani e affini . Metteva insieme le pagine manoscritte in bella copia senza correzioni Carolina e le portava da un copista ché le fotocopiasse ingrandite. Così assemblava i suoi volumetti in pacchettini legati insieme col filo di lana da venti, quaranta, trenta poems, dicono gli inglesi di tutto che sia in verso. A proposito di verso Carolina Mitternacht, componeva in endecasillabi, ottava e sesta rima, componeva ballate e sonetti, idilli, ma imitava con successo il blank verse, l’alessandrino francese o doppio esasillabo ; ma preferiva il martelliano e in qualche modo ma con meno successo per i suoi gusti il pentametro. Le piacevano tanto e la soledad e la seguidilla spagnole e il sonetto inglese. Insomma praticava con perizia la tastiera poetica dell’europa più o meno intera. Era paladina della forma. Datevi una forma vi prego oh dèi, stava inciso a lettere d’oro sul nero della placchetta di metallo 3×9 avvitata sopra quella del campanello all’uscio di casa sua. E questa scritta in un bel Bodoni 72 old style aveva suscitato la stizza di più di un inquilino, non importa quale, per via di quella invocazione a dèi di sospetta fattura. Ma a pubblicare appunto, a smuovere il cuore o dare il cuore a un editore, Carolina mai era riuscita.
Passa un giorno passa l’altro Carolina arrivò a un’età in cui tirare le somme, ossia fare un bilancio della propria esistenza, è un esercizio di ragioneria complessa e tanto poco indicato alle persone impressionabili, o sensibili a ritroso. Carolina scriveva e dormiva, mangiava ancora meno del solito oramai, due pugni di riso al giorno ed era vegetariana per sopramercato, in biblioteca andava alle tredici precise quando nel condominio chi era in casa era a tavola e usciva all’alba, lei non la tavola, per attendere l’apertura del supermercato vicino così da rientrare con la sua poca spesa quando tutto il condominio era alle prese con le sue gustose prime colazioni. Nessuno, men che meno le tre commari la vedeva più e lei non vedeva loro.
Le accadde in una notte di mezzo agosto, notte di stelle cadenti in cui forse per caldo il sonno però la prese più piombigno che mai, le accadde di essere visitata da un sogno di quelli che nemmeno Costantino in hoc signo : vices et versas. Dal nero della sua mente Carolina vide avvicinarsi al suo letto una fata o musa o ninfa o altro oggetto di fantasia ; sentì che due braccini metafisici le si infilavano sotto le gambe e il busto per sollevarla e via in volo nel buio di quella stessa notte di stelle verso un chiarore boreale lontano. Il volo durò poco ma a Carolina sembrò rallentato dalla confusa percezione dei suoi occhi senza occhiali. In un posto fantastico, si può dire divino, dalla fata o musa o ninfa o l’icche è, Carolina fu deposta su un praticello erboso e floreale, tanto ben dipinto e bello da non credersi possibile sulla terra. Infatti alla domanda sul dove siamo che Carolina fece alla sua pilotessa la risposta fu, Siamo nei campi... ma Carolina non avrebbe potuto dire che la fine della frase fosse, Elisi, tanto fu detta sottovoce. Vabbè. Carolina stava sdraiata lì nell’erbolina a godersi il fresco, faceva infatti fresco in quel posto di sogno quando sempre nel sogno, accadde questo : la fata o musa o ninfa o l’icche è, sfiorò con le manine fatate il petto ormai un poco invecchaito di Carolina, là dove sotto stanno polmoni e cuore e, senza che Carolina provasse alcun dolore, la fata le aprì il petto e ne estrasse il cuore palpitante. Carolina vide per poco il suo cuore grondante e vivo in mano alla fata ma questa subito scomparve con quel cuore in mano. A Carolina piano piano mancarono le forze per continuare a sognare ma, al limite di quella fatica, sognò che il cuore con la fata arrivava in volo da un signore con panciotto, coi baffi, non il panciotto, e un bel vestito chiaro addosso, forse beige ; al tipo dal nome e dal cognome programmatici, Lampredotto Editore che gli giravoltava in capo a lettere luccicanti come l’aureola a un santo di Giotto, la fata aprì il petto e vi incastrò il cuore di Carolina.
Carolina, nemmeno tanto in cattivo stato, fu trovata morta dai pompieri accorsi al richiamo dei vicini di casa allarmati dall’odore strano, tanto per dire qualcuno disse di santità, che arrivava dal suo appartamento. Per causa del decesso il medico legale scrisse senza accorgersi del lapsus, infarto del suocardio. Poco tempo dopo a una fiera del libro Lampredotto Editore in un altro suo bel completo chiaro, una grisaglia, presentò la novità libraria dell’anno : Carolina Mitterenacht-1275 Poesie
Poco tempo dopo ancora davanti all’ingresso signorile e in una giornata da soprabito…
1ªcommare L’ho saputo stamane… hai visto il telegiornale… avevamo una scrittrice… una poetessa per vicina che era… nessuna di noi gnanche dire si è accorta… al vederla così a fissarci con quei suoi occhi di pesce dietro le lenti…
2ª Con quell’aria da matta l’abbiamo sempre detto vestita a quel modo come dire per modo di dire con…
3ª(cogliendo la palla al balzo) Con quel suo nome… nome d’arte signore…
1ª Chissà se era sposata… poverina… però fortunata così morire nel sonno d’infarto…
2ª (interrogativa retorica) Che ( con irrisione bencelata) Vi dico che mitternkt era il nome del marito
1ª (ingenua) Chi lo sa… (interrogativa alla terza commare) mitternat com’è che dici che si dice
3ª Mitter nacht il ch si emette soffiando con la gola come i gatti… provate.
In apertura Nieces di Zoey Frank