C’era una volta, e poi non più nel condominio, la cuoca Greta, chiamata da tutti all’unanimità del condominio Grita : dopo morbillo, varicella rosolia scarlattina, megaloeritèma, esàntema critico e bocca-mani-piedi, l’anglofilìa e l’anglolalìa acritiche sono l’ottava e la nona malattia infantile, colpiscono a tutte le età, sono perlopiù resistenti ai trattamenti e passano di rado per remissioni spontanee ; si suppone siano autoimmuni. Greta-grita non era alta, non bassa, non ricordava le streghe delle fiabe tranne che… tranne che. Là però, nel bloc di vetro, metallo e cartongesso non ci abitava, non nel senso che per solito si dà alla parola abitare ; ci viveva infatti, ma nel vastissimo appartamento – 450 metri calpestabili di superattico – del maestro Lampùr, arcidirettore d’orchestra di media fama, e della sua governante, la grossa e non solo tale signora Wampun, poco nota e dimenticata pianista. Gente agiatissima e spesso agitatissima, soprattuto il maestro che apparteneva a un’antica razza di musicisti titanisti e oltretutto a una stagionata famiglia della media aristocrazia, un po’ Usher un po’ Montefiascone, un tipo quasi calvo, il maestro, anche in casa sempre in giacca e cravatte molto vistose dall’ enorme nodo, uno scorsoio ben imitato : in che modo e perché fosse finito ovvero avesse scelto o dovuto scegliere di abitare nel condominio mah, speculazioni sul suo gusto, nonostante nel superattico, nel senso che superava ogni aspettativa di posizione stante che tecnicamente sorgeva sopra l’ultimo piano, si arrivasse con un ascensore privato tutto d’oro ; era di semplice alluminio anodizzato di un bel giallo brillante che tuttavia, a un occhio innocente, sarebbe potuto sembrare oro per davvero ; la scala antincendio ti chiederai di sicuro dove fosse in questa architettura castellana, bon, era nascosta dietro una porta di cristallo opalino e si attorcigliava su dall’ultimo pianerottolo delle scale condominiali su su a una porta blindata che chiudeva un andito oblungo incastrato tra un cucinino – nel fastoso appartamento c’era poi la cucina padronale o master kitchen per dirla con quelli che… – la lavanderia con lo stenditoio incluso, un esiguo e cieco bagno di servizio, con doccia in scatola, e un’altra stanzetta, quella della Greta-grita, con un velux da cui si poteva guardare il cielo e la pioggia quando pioveva. Nessuno appiccava incendi in quell’appartamento e nessuno praticava la scala antincendio ma egualmente i pompieri municipali si esibivano in un annuale controllo di sicurezza.
Greta-grita lavorava come cuoca dal maestro Lampùr e viveva là dov’era confinata di notte o nei rari momenti di riposo ; il bagno di servizio tuttavia, non serviva a lei in esclusiva ma anche a nascondere le tre sabbiere delle tre gatte di casa, Cloto, Làchesi, Atropo… sì sì come le tre Mòire o Parche, chiamale come vuoi, le tre mitiche vecchie che filano o forse in passato filavano il destino di ogni uomo per poi tagliarlo a fine corsa e alla fine del loro giudizio. Le tre gatte avevano occhi il cui sguardo sempre attento a tutto e sempre au dessus de la mêlée, cerca di capire, coincideva con quello delle tre dèe così come potresti immaginartelo. Greta dunque era stata obbligata ad accettare di vivere in casa del maestro. I frequenti banchetti, le bizze dell’uomo per questioni di cibo esigevano la presenza di una cuoca a pieno tempo. Il maestro poi, quando soggiornava tra una tournée e l’altra, tra un concerto lì e un’opera là, esigeva che ogni sera gli si apparecchiasse una minestrina, detta potage, diversa ; era vegetariano e mangiava pochissimo, quasi sempre a dieta per via del mal di stomaco detestava anzi mangiare, ritenendolo un’obbligazione fastidiosa per non dire pericolosa con tutto quello che concerne la digestione fino al tratto finale ; la governante Wampum, che spesso cenava con lui alla stessa tavola, amava invece abbandonarsi all’ingordigia : una sorta di furto alimentare. Greta dovette ingegnarsi da subito, dal primo giorno dalla prima ora di servizio nell’esaudire i desideri del padrone. Padrone nel senso antico del termine, secondato se non inzigàto in questo da miss Wampun, una nubile programmatica che pareva avere nel sangue, ovvero nella memoria di ogni sua cellula, la propensione alla governance, di qualunque tipo. Ciò basti a definirli. Naturalmente Greta non veniva picchiataad ogni mènomo sbaglio, all’antica, questo no – l’atto oltretutto è vietato dalle vigenti leggi – ma negli occhi principalmente della Wampum brillava, quasi fosse un lumino perpetuo da cimitero, la luce cùpida di uno schiaffo, di un portacenere lanciato – il maestro fumava sigarilli toscanelli – di un bicchiere volante a frangersi contro un osso a caso, di una botta con qualsiasi oggetto contundente a disposizione nell’istante. Quest’intenzione era palese ma non superava poi, né mai, la barriera di una glossolalìa dura, cruda e malvagia.
Non che le parole ferissero Greta di meno. Anzi capitava che più delle parole l’accoltellassero lo scatto nervoso di una mano subito subito trattenuta o di un’occhiata feroce e sprezzante scoccata a bruciapelo. Colpivano di striscio le intenzioni al palesarsi ma lasciavano una traccia a seguire, e non è raro si sa che ciò accada, una traccia quasi indelebile e ogni giorno, a ogni nuovo rimbrotto o angheria, rinnovata nel corpo di Greta ; che tacere, taceva per forza : di quel lavoro aveva estremo bisogno. Aveva perso a bruciapelo, per ghiribizzo del proprietario, quello di cuoca in un ristorante, il Chichibìo, sì sì proprio così come te lo dico dove bìo sta per bìo, locale di media importanza, medio menù, pubblico medio ma ambizioso. E di larghe pretese, il proprietario – non il pubblico ché quello si sa pretende sempre la luna e il dito – per esempio di non pagare le ore che Greta faceva in più, gli straordinari, sicché fired, altra bella parola angelica che significa il moto a luogo per destinazione sconosciuta di chi viene licenziato : sparato oltre una cortina. Le colpe di Greta in casa Lampùr erano le più risibili e veniali che tu ti possa immaginare : per non avere sorriso servendo, per avere risposto a una domanda non formulata, per avere fatto due potage simili uno all’altro, perché si era permessa di condire la pasta prima di servirla – il maestro pretendeva che il sugo arrivasse a parte in una salsiera – ; per troppo aglio, poco prezzemolo, per il sale, per il pepe, per avere scordato i piattini d’argento da pane con centrino di pizzo, accanto a ogni piatto – anche quando a tavola erano solo in due, il maestro e la Wampum – per avere indossato una gonna invece dei pantaloni neri d’ordinanza, per non essere bianca a dovere la camicia bianca, per non essersi fermata i capelli con l’apposita cuffietta, per per per… la lista sarebbe lunga e noiosa.
La vita di Greta era dominata dall’incertezza. Tu dirai che è questa una condizione permanente e normale a qualsiasi vita ; nessuno sa quando gli si abbatterà la sventura o tégola in capo o se la morte, nel momento meno prevedibile e opportuno, interromperà il corso magari di una pacifica esistenza : con una metafora bellica l’allarme aereo permanente è condizione di tutti ; solo la notte riusciva a dormire indisturbata ma per Greta l’allarme era attivo ora dopo ora giorno dopo giorno e qui era circostanziato : non sapeva mai se al presentarsi i soli gesti che li annunciavano sarebbe poi seguito o no lo schiaffo, lo spintone o il semplice colpo di spazzola in viso, dalla parte delle setole ; poi non avveniva nulla, già detto, che non fosse invece un gorgogliare di insulti più o meno sproporzionato all’entità dell’evento scatenante e anzi al suo effettivo valore di innesco. Se ti ricordi la fiaba di Cenerentola, la situazione di Greta-grita era né più né meno quella ; era sempre sicura che qualsiasi cosa facesse o non facesse affatto la coppia Lampùr & Wampum aveva in serbo per lei qualche sgarbolerìa. Greta aveva però imparato in fretta a non dire, eseguire, fare e poi rifare per prudenza, sparire per quanto possibile, trasformarsi in fantasma e anche meno, una di quelle ombre d’umano stampate sui muri dalla bomba di Hiroshima, in modo così da evitare una qualsiasi rivendicazione della propria ciccia in quanto tale, quanto a occupazione dello spazio e rumore di pantofole ; ne usava con la suola di cotone robusto, cinesi, dette lungamarcia cui aveva levato il mezzo tacco di gomma per non che facessero né un clic né uno suiff sui parquet di casa Lumpùr, tenuti a specchio da ben tre domestiche, trattate del resto senza deroghe con la stessa famelica durezza riservata a Greta. Lei fremeva sì e no e taceva sì e sì. Si era addestrata peraltro a non mostrare col linguaggio del corpo una qualsiasi parvenza di solidarietà con quelle se per caso una delle tre fosse stata maltrattata di fronte a lei. Anzi, per non sbagliare si asteneva dal vederle le altre. Passava loro accanto quel che bastava a scansarle ma col passo deciso di chi non sa l’ostacolo davanti a sé e lo evita per puro automatismo del suo sistema sensoriale.
Curiosamente le gatte del maestro riservavano all’infelice banda di servitoresse quell’affetto e quella pietà naturale negli animali che non pugnalano mai alle spalle né tormentano chi è già alle corde, che, anzi, se possono partecipano a quella sofferenza con un muso appoggiato a una gamba o con quell’espressione misteriosa del benessere affettuoso che sono le fusa nel gatto appunto. Greta a sera e non di rado accoglieva nel suo bugigattolo anche tutte e tre le Cloto, Làchesi e Atropo ; e una amava sdraiarsi nella valle di lenzuola tra le gambe di lei, a l’altra accomodarsi a fare quelle lunghe toilette cui si sottopongono con calma i gatti e l’altra ancora si accoccolava ai suoi piedi per un pisolino primo di andare a dormire da qualche altra parte. Per solidale deferenza invece col maestro e la sua fida Wampum, con l’esclusione dei pochi di cui è già stato raccontato, a larga maggioranza il condominio aveva con Greta lo stesso atteggiamento di guardare & non toccare come di chi, avvistata sulla spiaggia una qualsiasi spoglia di animale sconosciuto e repellente all’odorato, con uno stecco, una paletta e un secchiello da bambini, si affrettasse a raccoglierlo, quel resto, per seppellirlo nel sabbiume il più isolato possibile o per rimetterlo da uno scoglio ad acque profonde et pereat mundus. Greta aveva di sé la percezione di essere quella spoglia andata a male al sole e perciò stesso ripugnante persino al proprio naso. Nessuno le rivolgeva la parola, solo comandi e al massimo un ‘Giorno sussurrato al punto che quel fiato non sarebbe stato possibile registrarlo nemmeno con il più sensibile dei microfoni ; al massimo un’occhiata di sguincio al trovarsela di fronte per un malaugurato aprirsi dell’ascensore in un’ora magari di affollati saliscendi. Greta soffriva e si agitava nel disegnare a mente raffinate vendette. Più che vendette, devastanti rappresaglie, delitti perfetti o rivolte emotive o agitazioni guidate magari da qualche volonteroso sindacato, uno cioè attento più ai guai delle vittime che alla cupidigia del mercato. Tutto ciò restava relegato nella cameretta dei suoi sogni finché un giorno basta, finis, no : le idee di rivolta non sono mai morte, cantava tanto tempo fa una canzone sciocca quanto velleitaria ; Greta non avrebbe potuto conoscerla, non la conosceva e non se ne sarebbe fatta nulla, fu la cisterna della sua pazienza a raggiungere da sola e far saltare la valvola del troppo pieno. Avvenne tutto come se la premeditazione a lungo trattenuta dal farsi, fosse maturata da sé come un pomodoro al sole, senza che una goccia di più, per stare alla metafora di prima, facesse traboccare il vaso ; senza che una scintilla… bè una scintilla a dire il vero ci fu e fu scatenata da Greta.
Nel bel mezzo di una notte nera e afosa, Greta si alzò dal letto con cautela, i padroni dormivano sodo come sempre. Avrebbe volentieri preso una doccia gelata ma si limitò a levarsi via il sudore con una spugna bagnata, poi si vestì per uscire, la sua valigia era già pronta sotto il letto, le gatte osservavano tutti i suoi movimenti aggrovigliate tra loro sul letto, lei recuperò le loro capace gabbietta e le tre fiduciose e mute si lasciarono invitare dietro quelle sbarre temporanee : presagivano. Poi gatte e valigia e Greta, passarono per la porta di ferro. Scese cheta cheta le scale dal superattico al pianerottolo sottostante. Inquieta un poco per il rumore che l’ascensore avrebbe fatto, prese invece per la scala di servizio, rapida ed efficiente, prima le gatte poi la valigia, ancora per due piani. A quel punto chiamò l’ascensore e via al piano terreno, lei le gatte e la valigia. Era molto tardi, le due di notte e a quell’ora era in pratica sicura che non avrebbe incontrato nessun inopportuno condomino. Depositò gatte e valigia in un angolo oscuro fuori dal portone condominiale indi fece marcia indietro; risalì al superattico rapidissima ma con eguali cautele ; entrò nella lavanderia rovesciò in terra una bottiglia di alcool, una di benzina per smacchiare e una di ammoniaca ; appiccò il fuoco con un fiammifero, non lo gettò tra le fiamme ma se lo mise spento in tasca, filò nel cucinino e aprì le valvole del gas, infine via di corsa di nuovo per lo stessa percorso. Appena fuori dal portone sentì un boato, l’attico era saltato per aria. Filò via nonostante i pesi in mano della gabbia con le gatte a destra e la valigia a sinistra, senza voltarsi. Brandelli infuocati del superattico volarono a spengersi nella vasta area verde condominiale. Le fiamme guadagnarono svelte la via della discesa, scesero scesero fino a ridurre il condominio a una candela consunta. Lo sciolsero. Si udirono urla e sirene.
Con oggi l’ElzeMìro va in vacanza. Le pubblicazioni riprenderanno in una momento imprecisato di settembre, a sorpresa ma, questa vaghezza si adatta bene alla tonalità di una serie che vagola per l’aria di cui si giova il vuoto della sua testa : Nel bel mezzo di una notte nera. Grazie a chi si è dilettato finora con le fablìole e a presto
Elzie