L’ElzeMìro – Erotìade Pornodòra – Auto sacramental a chiave, della credenza.

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                                                         Ambrogio delle Àncore –  I do mori, 1497Venezia, San Marco, torre dell’orologio 

Sipario chiuso. 

Gran ciambellone (da dentro, tonitruante)

È la regina che tutti v’adóra/l’è l’Erotiade gran Pornodòra/l’è la bella sfinge la sòra bella/e’che vi dipinge, che v’inanella/ell’è pilloletta, ma che vi diletta,/salvéte oh pronodòri la Pornodòra

Il sipario arranca con gravità di ghigliottina che s’appresti al découpage. Appare l’emiciclo posticcio d’un teatro romano ma diviso in due settori da un corridoio porticato; dal cielo una gran lingua penzola irrequieta, e con la punta in qua di là menando come fosse tentacolo che urgesse. Dilaga folla corale di quovaditcaesar. Superbi negri in perizoma di bronzo, recando torce d’oro a mano dritta ed a sinistra spadini inguainati, menano piattonate in capo al coro, perché s’assetti….

Tutti i negri (bassi)

Ai gradónionìonò/  ch’arriva mammónamónamóna/ si tàcciaciàcià.

Coro (crescendo d’estasi) 

Egiàegiàalalìalalà

Ammassato in platea in un groviglio di cenci profughi, il pubblico bèla, gème, mugola. Furibondo il Disessènti ne traversa….

Disessènti (brandendo una daga)

Mostrati  puta, sanza riguardo….

Miasmi, luciàzze triviali, schianti e cigolìi denunciano l’aprirsi d’una botola ni’ mezz’alla scena. Ne spunta un emistìcchio a decorato di foglie d’acànto….

Coro 

Cùccalacùccala cuccànïà…

Allo stìcchio avviticchiato, pesciolìn di princisbecco, Erotìade Pornodòra, fu Pomodòra, vulve-à- poil  sberlusànte di scaramazze

Erotìade Pornodòra (soprano svociato)

Vobi annuncio la mi’bibìtum

Negri e Coro

Tùmtumtumtumtùm

E.P. (delinguàndo lo sticchio)

Bendetta bivalva, la bibikabìbi adlibibitùm…

Lungo il corridoio centrale ventiquattro pastorelle nazificcate, per un canapo imporporato tirano ballando un carro con sovra, artefatto colosso di polistirolo, un libro serrato da serratura. Svolando dall’alto con la chiave che tra le gambóne gli pèncola, il Gran Ciambellóne la schiava. Dimendandosi, tworking, l’Erotìade salta sul carro, apre, sfoglia il libro. Numerottate alla carlóna le pagine tutte son però candide….

E.P. (c.s.)

Kuesto lèl libro da me proferito/ke drento per dono mika kè scrito/éki non vuole restare impalato/ke guardi bene nel vuoto formato/lèl bianco folio kogniuno divina/figàta kuscìta da mi’ vagìna….

Piovono cento e mille scariche elettriche. Il Disessènti si scaglia in palcoscenico, tronca ratto le funi al sipario che crolla di sotto a ghigliottina. Coro urla, poi tacet. Nel silenzio esterrefatto, Che mai sorge, domanderà qualcuno; completa di fisarmonica e cello, un’orchestra s’affaccia all’entrata della sua buca; s’accomodano code e farfallini. Con un cenno il Disessènti ne suscita il suono; il pubblico sorge dalle sue prostrazioni; Jedermannb, l’Ognuno ricompone in platea i suoi stracci, sciama fuori. Remoto s’ode un amen…. https://youtu.be/g7SJP9qYWx0

Schermata 2017-05-09 alle 10.57.09

a. da emistichio, mezzo- emi, stichos, verso, o da stick, middle english stikke, altro tedesco stecko, da non confondere col siciliano sticchio lat. osticulum, diminuitivo di ostium  os a voler dire porticilla o vucchella, ovvero vulva.

b.a dirsi iederman – tedesco pron. e agg. indef. per ognuno, e Jedermann, titolo del mistero profano di Hugo von Hofmannstahl (‘ugo fon ‘ofmann’sctàal -1874-1929) dalla prima del 1920, poi ogni anno al festival di Salisburgo (Austria) ritualmente  replicato. Regia, allora, di Max Rheinhart -rain’art,

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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