Non è raro, e tuttavia non comune, che una menzogna anche grossolana, un travisare od omettere artati ma ben rivestiti o travestiti passino, tra i molti, per accettabili verità. È ovvio che prima di parlarne occorrerebbe mettersi d’accordo sul che cosa significa menzogna e che cosa verità, le cui definizioni, la definizione cioè dei loro confini, può non trovare tutti d’accordo allo stesso tempo e nello stesso modo.Per orientarti : è noto che la stessa vicenda, vista dagli osservatorii o della vittima o del carnefice può sembrare vera all’una e falsa all’altro ; non solo, ma può non essere chiaro in modo inequivocabile e a tutti tra due chi sia la vittima per vero e chi il carnefice per falso, benché i due concetti abbiamo una matrice intuitiva nella maggior parte di coloro che ne parlano in modo elastico, cioè per sentito comune. Si mente, ovvero si creano utili alternative al vero, al plausibile, al logico, più spesso di quel che si creda e negli ambiti e situazioni più correnti, spesso senza nemmeno darsi il tempo, prima di tutto dunque a se stessi, di realizzare l’inganno che stiamo mettendo in atto per gli altri e che distrae appunto per primi noi stessi. A tavola succede che un piatto di verdura inacidita venga lodato da non pochi come il migliore mai assaggiato ; Ottimo, si dice in viso all’ospite che non si vuole disgustare con un giudizio veritiero. La bugia ha un fondo di carità e di perbenismo, di buona educazione intesa come educazione a nascondere concetti spesso indistinguibili tra loro. Si mente con tutta la propria forza alle più uggiose e non gradite riunioni familiari – si ostenta allegria o al contrario accoramento, curiosamente più facile da recitare – là dove si è presenti assenti, apparenti e desiderosi di levarsi dalle scatole. Asserire pertanto il contrario di ciò che pensiamo o deviare con una risposta indiretta una domanda troppo diretta per essere smaltita con una semplice negazione, è un’usanza che non disgarba quasi mai nessuno e senza essere una regola ne assume all’atto i connotati. Ma solo al cinico senza paura, al Diogene può competere l’allestimento di una critica della ragion bugiarda. Questo è un punto di importanza fondamentale. Il vero – la domanda è se dire l’autentico – di preciso al contrario di quanto spesso si fraintende, appartiene alla letteratura, anzi è un privilegio in universale misura delle arti, della poesia. Si potesse volare in ricognizione sopra un’immaginaria città costituita da tutte le opere di pittura, di scrittura, compresa la musicale, anche per il più astuto e attento dei sorvolatori sarebbe impossibile scovare e fare una foto aerea di un singolo indizio, sospetto, edificio di falsità. L’arte allora non mente mai, ti domandi ; no, ma può essere di modesta e incerta architettura, brutta insomma. Per tutto questo chissà c’è una ragione : con l’arte si fabbrica una realtà a propria immagine e somiglianza, una realtà altra, un meccanismo a sé stante reale, e perciò stesso autentico nel proprio campo, rispetto al reale della cucina di casa, là dove il cavolo marcio si butta, salvo cucinarlo il più a lungo possibile perché non c’è altro di commestibile. Un travestimento. Forse anche per un motivo simile il potere del potente, del boiardo, del sultano non meno che del sottosegretario all’istruzione, di tutti gli accreditati a palazzo non meno dei molti tra i miserabili, il potere teme l’arte e non solo, spesso anche l’artefice in quanto grande assertore del fatto che l’imperatore non ha per niente nuovi vestiti e che al contrario è nudo si usa dire e così immaginò Andersen (1837). E a quel punto è facile per il suddito e per il cortigiano leggere la fiaba come inganno, farsene una versione di comodo e ridistribuirla come fosse perla e invece è stata alchemizzata in porcheria. Un particolare : quando una verità sfugge di bocca come freccia scagliata nei polpacci dell’uditore è subito accolta con un sorriso di condiscendente paternalismo ; quasi fosse la scoreggia emessa senza riguardo ma senza colpa dall’infante.
Norma agli inizi era una bimba dai capelli rossi e, nemmeno la madre lo avesse fatto apposta, aveva la pelle di un candore pari alla sua innocenza, detto eburneo in altri tempi ; e lentiggini così ben seminate in viso e tali che davano al suo incarnato un’ombra color cappuccino. Ma questo dato non ha nessuna importanza se non per chi vuole immaginarsi il personaggio. Di Norma, particolare era invece il carattere di coraggiosa sventata non diversamente da come il suo nome proprio sembrava volesse suggerirle ; e di tutrice scientifica del vero, indifferente con metodo alle convenienze del momento. Se disegnava un mare rosso, come accadde nei primi mesi della prima scuola, un mare rosso con una barca rossa e un pescatore rosso che pescava pesci rossi, se sullo sfondo neutro di un muro coglieva per poi descriverli a matita i sintomi di visi mostruosi come chimere o delle fisionomie brutali, nessuna maestrina con o senza penna rossa avrebbe potuto contestarle che quelle cose non hanno esistenza perché Norma sbandierava il proprio disegno come prova inequivocabile del contrario. Senza battere nessun ulteriore ciglio, fredda ed immobile come una statua. Sicché la sua infanzia, e dopo la sua giovinezza, passarono non solo tra i rimbrotti degli adulti di riferimento ma anche tra i lampi di astio dei compagni di giochi prima e di studi poi, le cui mancanze e i difetti, le piccinerie erano bersaglio delle frecce e dei colpi di un’avversa Norma ; che aveva un solo interesse al mondo, o quasi, pitturare dicevano gli a lei d’intorno, dipingere diceva lei incurante di quel dire svalutante. Tutti i ragazzi stavano ormai passando dall’età dei primi amori a quella dei secondi ma Norma, quasi diciottenne e sempre in linea con il suo nome da vestale, aveva evitato ogni tipo di coinvolgimento con giovani del suo o dell’altrui genere, così da riuscire a mantenere verso le cose sentimentali, che pure osservava manifestarsi come fantasmi intorno a lei, un punto di vista prospettico, da pittore, mestiere che avrebbe intrapreso di lì a poco, trovandosi nella necessità di mantenersi in vita, dopo anni passati a pitturare su ogni foglio di carta o superficie a sua disposizione, a studiare anzi a voler studiare le arti belle infino su su per le scale dell’Accademia e contro il disdegno o la fiera opposizione di una coppia genitoriale versata, per quella figlia dal nome augurale, unicamente nel divisarne un futuro accanto a un principe azzurro o perlomeno a un brillante dottore in scienze economiche e finanziarie o se non, almeno in ingegneria. Detto questo si può andar oltre il tema infanzia e giovinezza di Norma con l’aneddoto che segue : invitata suo malgrado a una festa tra giovani colleghi, Norma si trovò perseguitata da un pistolotto più largo che alto che seduto o in piedi, con o senza un bicchiere sempre di troppo in mano o biascicando pane e salame, dalla 21:30 alle 24 tentò con gli occhi di sedurre Norma. Le voci ingannevoli e i vezzi bugiardi degli uomini e dei soldati, scrisse il genio di Lorenzo Da Ponte, ognuno sa a che punto dell’anatomia dell’altro puntano ma, appunto, lo si nega, sicché dopo le ripetute e sterili moine, quel giovine commise l’imprudenza di far slittare il proprio discorso sulla pista ghiacciata della propria infanzia, Sai… quando ero piccolo…; e lì Norma colse l’occasione che aspettava, Dunque sei stato più piccolo di adesso… Il poveretto si aprì un varco affannato tra i tanti, raggiunse il bagno, si accasciò sulla tazza e, all’ultimo tuffo, vomitò.
Dopo una brillante ma, come dev’essere, solitaria carriera artistica, Norma arrivò all’età che molti pensano sia da dedicare a qualche po’ di saggezza, non sempre commettendo errori di valutazione circa il sentimento da attribuire a questa parola o, viceversa, ribaltandolo in direzione di un idillio tra ideale e quiete ricercata molto più che trovata ; non fosse che non è raro si travesta la saggezza da demenza e per tale venga presa. Fu così ma non proprio per Norma che in modo graduale prese a distrarsi dalla cura di sé medesima in modo autorevole ; catturata dalla sua arte in modo quasi ossessivo – qualcuni di facile intraprendenza interpretativa direbbero presa dall’incombere del tempo – dimentico del quotidiano : si lavava tutti i giorni ma non proprio tutti e le capitava di non ricordare quando si era cambiata di mutande o di calze ; usciva per la spesa meno che poco e mangiava quando sì quando no così da ridursi a un sacchetto di quei biscotti che in molti paesi si chiamano lingue di gatto tanto sono leggeri ; inoltre, e se hai avuto a che fare con una madre al deragliamento lo sai, ritrovava le chiavi di casa in frigorifero insieme con le pantofole, la moka in lavatrice e così via. Benché tutto quello che le serviva per lavorare fosse catalogato nella sua mente con precisione infallibile accadde che due polizia di ronda diurna la ritrovassero un giorno su una panchina in parte innevata a disegnare nel gelo di gennaio in un suo Skizzenblock e minimamente consapevole del tempo metereologico e cronologico ; richiesta dove abitasse fu vaga : e venne ricoverata, occorre dire anche per il grave deperimento. Fu rintracciata una certa parente lontana, tale Lydia con la ipsilon, una nipote secondaria e non più giovane, anzi, infelice di aspetto e depressa, minimamente interessata a occuparsi di Norma. Ma dovette. Sicché, a farla breve, Lydia con la ipsilon, che campava del suo lavoro in una modesta casa editrice di guide turistiche, vendette tutte le opere di Norma a caro prezzo, cioè di mercato, trattenne per sé una congrua percentuale per il disturbo e il rimanente lo depositò a garantire tuttavia per Norma un’onorevole sistemazione in uno stabilimento per vecchi : la Dimora delle Robinie.
Dimora o no robinie o no, non è il caso di indugiare qui nella narrazione delle non particolari giornate che si svolgono nel chiuso di quelle dimore, per anziani che più che altri sono di passo ; da che odori e da che dolori eventuali, da che mormorii e lamenti siano contrappuntate, da che strascinare lo straccio gli inservienti, svuotare padelle gli infermieri e prendere temperature o rilevare saturazioni. Se è vero in parte che quello del carcere per il detenuto è pur sempre un vivere, da padroni per esempio della propria tanta o poca intelligenza e aspettativa di rilascio a fine pena, con un orizzonte insomma, immaginati che cosa succede tra quattro pareti non di necessità con le sbarre, quando sia perduto il ben dell’intelletto del tutto o in parte o il bene della salute. Vero è che Norma alla perdita della propria indipendenza non si oppose in modo manifesto, anzi parve che il fatto di non doversi occupare di niente, cibo, toilette personale, vestiti, l’avesse sollevata alla fine da una fatica ; le era stato concesso senza difficoltà l’uso di un enorme quantità di pastelli colorati salvati allo sgombero del suo studio, e la parente non aveva lesinato sugli album da disegno. Sicché Norma, ubbidite le convenienze e inconvenienze sanitarie mattutine, pur nella confusione , per dir così, della propria mente, ora che una dieta opportuna le era stata comminata riusciva a camminare spedita verso il soggiorno collettivo, accomodarsi a un tavolino, sempre lo stesso, dove cominciava e proseguiva la sua operosa giornata senza alzare lo sguardo dal foglio, senza lamentarsi quando le mani artrosiche si stancavano, senza resistere quando anche la mente se ne fuggiva altrove ciondoloni in un alternato sopore. Mangiava quando era prescritto, dormiva, bè se ne aveva voglia ma per il resto non si opponeva al regime.
Solo la caposala, i due medici della struttura e uno dei due infermieri, un massiccio straniero e un esile nostrale, la disturbavano ovvero, per dirla esatta, la impaurivano. Quasi fosse un mantra o una formula contro emanazioni demoniache, al vederli, ma di rado nel soggiorno, e passare tra le vecchie, scattava in lei l’allarme e prendeva a strillare, non si sa dunque perché in francese, Vous venez nous tuer ne nous tuez pas ne me tuez pas pas pas (venite a ucciderci, non uccideteci non uccidetemi, no no no) dando la corda a un parossismo di angoscia. Cercava allora di scappare di qua e di là, a volte lanciando oggetti o rovesciando, chi lo sa attingendo a che forze, ora una sedia ora un tavolino ad intralciare il personale della dimora che si slanciava per catturarla e, a quel punto, a imporle una siringa di sedativo. Come chi sta affogando è forse probabile veda svanire cose e persone sopra di sé fuori dall’acqua e a quel punto che si agiti, respiri acqua e muoia, così Norma sprofondava nel mare sinistro del sedativo e si addormentava. Per il resto era una vecchia schiva che, nel deragliamento più diagnosticato che reale della sua mente, aveva però e per certo conservato, ma nessuno era disposto ad ammetterlo, una precisa cognizione, con Emilio Gadda, quella del dolore.
C’era però nella percezione di Norma una realtà in atto, cioè che la Dimora delle Robinie era un anticamera delle morte : una qua una là, ora un giorno ora un altro non poche tra le vecchiette finivano in fumo. Questo sarebbe stato naturale non fossero stati la caposala e i due medici di guardia con il concorso attivo dei due infermieri e dietro compenso dei parenti, a ingegnarsi con senza troppa fatica nell’individuare il modo più logico e coerente con la loro relativa o assoluta infermità, perché le ospiti dalla loro stanza transitassero al locale freddo e ben aerato della camera mortuaria. Un prete sistemava le pendenze di quelle anime con le fantasie circa e intorno ad esse, il furgone nero delle pompe funebri lasciava carico il seminterrato oscuro della dimora e voilà a piccole dosi le ospiti passavano al ruolo di senza fissa dimora. I parenti, opportunamente lugenti, si trovavano così liberi dal peso di una responsabilità indesiderata, la caposala e i suoi compari riscuotevano la parcella per quegli interventi fuori norma, e Norma vedeva in chiaro tutto questo. Quindi le sue paure e i suoi strilli non erano deliri dementi ma verità e tanto poco mascherabile che fu presa in considerazione l’ipotesi di liberarsi di lei. Ma la dose di sedativo che vollero iniettarle non le fu letale. Anzi le chiarì la mente. Sollecitata nella propria stanza la caposala e ancora allettata per le conseguenze di quel tentato omicidio, Norma le chiese non pietà ma un accordo : lei non li avrebbe denunciati ma avrebbe loro concesso una percentuale considerevole del suo patrimonio, quello di cui la nipote si era appropriata e che alla sua morte, di lei della nipote, Norma, unica parente avrebbe ereditato. La caposala trovò l’accordo ragionato e Lydia fu uccisa con gentilezza, un giorno di visita dopo l’altro e con un oculato stratagemma chimico-fisico. Norma continuò a darsi conto del traffico di anziane dal seminterrato, ma una visionaria saggezza la indusse a tacere e a considerare che la verità è un’onda. Da caposala e compari che si attennero per onestà all’accordo non ebbe mai più nulla a temere. Migliorò.
L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl