Fu durante gli scavi in giardino per i laghetti di villa*** che l’idraulico Grossòmo ebbe il sentore, la vaga notizia della valvola a campana. Beninteso le valvole di quasi tutti i tipi erano il suo pane ; che cosa fosse pertanto una valvola a campana gli era chiarissimo e, al tempo stesso, oscuro. Valvole a campana o a fuso per esempio potevano essere intese quelle degli sciacquoni. Ma per regolare le acque della villa – che aveva per sicuro una specie di acquedotto privato e complicato assai, antico più che vetusto – e quindi per prevedere il riempimento dei laghetti che dal progetto volevano un volume d’acqua importante, per non dire immenso, sarebbe occorso altro che il getto di un rubinetto – quello del reservoir in giardino, una vascona bordata di pietra serena a partire dalla quale, allargandola a dismisura, si stavano scavando i laghetti – e per di più secco e chissà da dove allacciato alla rete della villa, ma un sistema di mandata molto importante; tenuto conto anche della rilevanza dell’impianto di trattamento dell’acqua e nonostante la buona intenzione di realizzarlo con una speciale formula biologica. Della valvola a campana correva la voce da prima che la voce si diffondesse, e fu riferita all’idraulico da un paio di operai dell’opera, abbastanza anziani da averla raccolta da altri anziani, giardinieri o manutentori, quale estinto quale degente in una casa di riposo e non molto in sé, e da più giovani parenti di un vecchio centenario, pure da tempo deceduto che, in un passato indistinto, era stato, ti piacciano queste definizioni, il protoidraulico, il magistrato delle acque di villa***. La valvola a campana era, sarebbe stata nella diceria, la chiave di tutta l’acqua che correva e si sprecava nella villa, immensa, e in giardino per alimentare il sistema di irrigazione, ridondante, ma indispensabile al roseto, alle serre, calda, temperata e umida, alle lavanderie, alle cucine. Dove fosse e che cosa fosse questa valvola a nessuno dei signori*** era noto; erano abituati a vedere funzionare la villa quasi per autonoma volontà, come una macchina del moto o del tempo perpetuo basata sul principio elementare e fiducioso quanto fragile del è stato sempre così tutto ha sempre funzionato benissimo non ci sono mai stai problemi. A Grossòmo appena ricevuto l’incarico di nuovo idraulico era venuto semplicemente in mente che per a campana si volesse intendere, in modo forse un po’ campagnolo, una valvola a globo o a sfera per non dire a saracinesca. Tant’è ma dove fosse situata questa valvola era un mistero. Scoprirne la collocazione e la concomitanza più o meno con una o più pompe, autoclavi, manette o volantini, era più o meno importante per capire come derivare una parte del sistema idraulico all’alimentazione dei laghetti.
Le opere per realizzare di questi il progetto procedevano intanto con relativa rapidità. Si disponevano massi per finte grotte, si movimentava la terra per creare collinette, due, su una delle quali era in costruzione un tempietto dedicato a Venere – sì proprio a lei dell’isole feconde – si preparavano le strutture, le canalizzazioni anche elettriche e la posa dei tubi per un idromassaggio diffuso e per le due cascate che avrebbero interpretato il ruolo di immissari dei laghetti. Gli scassi inoltre procedevano a diverse profondità poiché qui sarebbe stata disposta una spiaggetta più adatta ai giochi e al nuoto dei bambini – che ogni estate aumentavano con l’aumentare delle coppie giovani e ospiti dei signori *** – là un invaso più fondo per permettere ad adolescenti e a non meglio identificati adulti di compiere prodezze subacquee e quei tuffi che alcuni dicono a bomba : tutto un gioco tra il barocco, le fantasie di Las Vegas e quelle non meno infantili di un bambino o di una mente non toccata dalla civiltà ; volendo con ciò attenersi al pensiero del celebre architetto Loos e celebre nemico di ogni sorta di decorativismo, dal bovindo alla lesèna. Tant’è. Mentre si occupava dello schema di tutte le condotte per l’acqua restava incertissimo nella mente di Grossòmo il da dove farla arrivare tutta l’acqua necessaria.
Fu in quell’incertezza che una notte gli arrivò invece un sogno. Non si sa se fu a colori o in bianco e nero perché poi il Grossòmo fu reticente in merito, si capirà il perché. Fu lievemente sonoro invece: tant’è. Tutti sappiamo l’importanza del sogno nella letteratura e nelle leggende, nella mitologia, dal Sogno di Costantino al sogno di Non è un paese per vecchi, al sogno dell’Interpretazione dei sogni del maestro Freud, fino ai sogni triviali che annunciano numeri del Lotto, vincite o vittorie o la rivelazione di tesori, ovviamente nascosti. Ebbene nel sogno Grossòmo si ritrovava a vagare senza mèta in un sotterraneo tenebroso, sotto volte nere, come affumicate dal fumo secolare di potenti torce; lo accompagnava un continuo click clack di gocciole nell’acqua e, così sembrava, il suo intento nel sogno era di arrivare alla fonte di quello stillicidio, di quel gocciolare ma Grossòmo non seppe poi spiegare se era lui ad avere quell’aspettativa nell’incoscienza del sonno o se era l’altro, il suo altro del sogno ad immaginare di perseguire quello scopo. Ecco che di colpo, nel buio, vedeva una fiamma avvicinarsi a lui, via via rischiarando quegli anfratti. Un vecchio dagli occhi di ossesso e con in mano una torcia medievale a bitume gli si parava – è il verbo più usato per queste apparizioni inattese – gli si parava innanzi fissandolo, straniato. La fiamma della torcia lambiva, bruciandolo, l’alto di quella profondità così che Grossòmo constatò che era opera muratoria, in mattoni fuligginosi. Il vecchio gli faceva il cenno, discreto ma imperioso, che lo seguisse e si avviava nel profondo di quella cavità, come definirla, quasi scivolasse verso il basso. Lungo il tragitto, ora a destra ora a sinistra con scansione dispari, Grossòmo intravedeva aprirsi delle logge ancora più occulte di tutta quella tenebra ma, nonostante l’età e nonostante la fiamma che rischiarava come poteva il buio, il vecchio procedeva senza esitare a diritto e, a guardarlo, non pareva camminare bensì scivolare movendo i piedi, nudi per migliore cronaca, a velocità di ali ; ogni tanto si voltava, si vedeva la sua bocca articolare delle parole ma nel sogno non arrivavano all’orecchio del sognatore: solo il metronomo dell’acqua, click clack, non smetteva mai. Grossòmo non provava terrore nemmeno nella forma più usuale della paura e per quel vecchio gli pareva di provare una certa reverenza. Dopo tanto andare e scendere e scendere in profondità incommensurabili di colpo il vecchio si fermava, alzava alta la torcia e l’occhio interiore di Grossòmo realizzava una caverna più che una volta ; una grossa goccia si formava al colmo di quella volta e cadeva, click clack su una superficie d’acqua senza fine : un lago sotterraneo i cui bordi si perdevano nell’oscurità. Se il braccio sinistro del vecchio reggeva come già detto alta la torcia, il destro, la mano destra, e per precisione l’indice imperativo indicava, infissi nel muro lì vicino, una grossa, ma grossa semisfera, dall’aspetto massiccio e robusto, e il volàno, in tutta evidenza di una saracinesca. Aurora – dalle dita rosate si sa – sfiorò gli occhi di Grossòmo e la zampa soffice del suo gatto la guancia: ora di svegliarsi e di dargli del cibo. Grossòmo interruppe il sogno.
Nel mattino incipiente e dopo essersi cacciata in corpo la consueta tazzona di caffè con moltissimo zucchero, Grossòmo prese dalla borsa dei suoi ferri abitudinari la lampada da fronte, ne controllò la batteria, se la fissò in capo, chiuse la borsa e se la portò a tracolla e – in una fairy tale o in un più banale giallo si sarebbe detto armato di tutto questo – partì deciso a trovare la corrispondenza tra sogno e realtà. Pensò giustamente di iniziare con un’ispezione delle cantine di villa e per questo chiese che la governante gliene aprisse la porta. Lo aveva già fatto ma distratto ad osservare gli scaffali ripieni di centinaia di bottiglie di ogni tipo di vino. Un patrimonio di bottiglie di cui i signori *** erano custodi e consumatori. In quella occasione precedente non aveva fatto caso a un portone robusto e sprangato al fondo di un corridoio dove alloggiavano i tini di acciaio per l’olio. Chiese alla governante per dove si andava per quel portone e la governante rispose, Oh, oltre, oltre altre cantine ma nessuno ci va mai. Grossòmo lasciò libera la governante di tornare al suo lavoro. Poi disserrò i paletti del portone. Gli arrivò al naso un forte odore o profumo di umidità, secondo di come uno è attrezzato a percepire i sentori del mondo. Buio. Accese la sua lampada e alla propria destra in un vedo e svedo subito si accorse di un grosso interruttore di porcellana. Ne ruotò il perno. Una collana di lampade di sicurezza si sgranò lungo il soffitto di quell’andito: una galleria di gradoni che a giudicare dal numero di lampade che la illuminavano a perdita d’occhio pareva un traforo senza fondo. Grossòmo spense il proprio lume e prese a scendere. Che dopo pochi momenti gli tornasse in mente il sogno e il vecchio del sogno è una supposizione che ha trovato un debole riscontro poi, al raccontare Grossòmo la sua discesa in quell’Ade. Fatto sta che un brivido gli percorse la pelle, non di paura ma di freddo; dal fondo infinito di quel tunnel a gradini arrivava uno spiffero, indizio forse che in qualche modo, per qualche verso, da qualche parte arrivava lì sotto dell’aria dal di sopra. Grossòmo era come lo definiva il suo cognome per cui dopo i primi brividi la sua termoregolazione lo adattò a quello spiffero e anzi gli sembrò che fino a un certo punto facesse freddo, poi più caldo poi più freddo. Tant’è. Continuò a scendere. In un racconto ottocentesco Grossòmo avrebbe percepito misteriose presenze, le stesse che ognuno è portato a rilevare, a inventare in virtù dei misteriosi ingredienti di cui si alimenta la nostra fantasia così come nutre i sogni e li ingarbuglia. Ma il Grossòmo non era tipo da farsi intimidire dalla realtà e continuò a scendere: anche grazie alla luce di speranza garantita dalla luce elettrica delle lampade a muro. A un certo punto della discesa tuttavia e chissà per quali incomprensibili motivi la luce si affievolì, si affievolì, si affievolì, parve spengersi ma no… non si spense del tutto e si fermò a quello stadio crepuscolare in cui perdurano per qualche poco le lampade a batteria prima dell’estinzione. La galleria divenne come arancione, rosa spento, rossastra e quella luminosità permetteva nonostante di vedere ma a non più di un paio di metri oltre il proprio naso. Grossòmo accese di nuovo la propria lampada, superò un passaggio dalle volte rinforzate con enormi piastre di ferro imbullonate a forza nel muro, superò una pendenza più erta del percorso e poi di colpo si trovò a camminare in piano là dove il tunnel si apriva al punto di sembrare salone.
Grossòmo si fermò proiettando col capo la luce della propria torcia tutt’intorno fin dove arrivava. Così si diede conto di essere arrivato al punto di sutura tra sogno e realtà. Si trovava in una vastissima sala dalle pareti rinforzate in muratura mentre le volte erano di fatto quelle di una caverna. Dal colmo di questa vide che si formavano, pendevano e si staccavano, non una ma decine di gocciole d’acqua che cadevano di sotto click clack in un lago. Quanto fosse esteso questo non riuscì a capirlo, i led della sua torcia non riuscivano a perforare tanta tenebra. Ma lo spiffero qui era più forte e dunque l’indizio di una qualche comunicazione tra quel sotterraneo e il di fuori. Guardò l’orologio; era là sotto da due ore scarse e questo lo sorprese: era quasi l’ora canonica del pranzo per gli operai, le dodici, e non aveva niente con sé da mangiare. Se a risalire gli fossero occorse altre due ore scarse sarebbe arrivato così affamato come la sua complessione gli suggeriva sempre, non solo a mezzogiorno. Ma se l’acqua e il lago là sotto gli sembrarono non il primo non l’ultimo esempio di volontà della natura, ciò che lo sbalordì fu piuttosto, infissa nel muro all’altezza di un uomo alto, una grossa semisfera di ferro ossidata, sulla quale si vedevano dei caratteri incisi ma non si leggevano, forse il nome della ditta costruttrice chissà, e più sotto ad altezza d’uomo invece, un volàno enorme, di quasi due braccia di diametro e dai perni ancora perfettamente impiastrati di grasso che, se manovrato, in tutta evidenza avrebbe azionato un braccio che avrebbe azionato uno stantuffo massiccio infisso nell’imboccatura di un cilindro sigillato. Quanto alla semisfera il suo intuito professionale gli mormorò che si trattasse di valvola di troppo pieno. La forma aveva ingenerato la voce, la diceria a campana. Gli sembrò evidente che ormai era vicino alla soluzione al suo problema di alimentare i laghetti su in giardino. Tant’è. Si trattava di scoprire a che cosa servisse il volano o volantino e se saperlo sarebbe servito a qualcosa. Probabilmente serviva a far entrare acqua nel lago e quindi la captazione d’acqua, se mai, si sarebbe compensata facendone affluire nel lago da chissà quale fonte misteriosa. Decise di procedere però con cautela. Quando era apprendista il suo principale gli ripeteva sempre con l’acqua prudenza. Attardandosi ancora lì sotto provò a smuovere un pelino il volano; cedeva amabilmente. Sentì dei rumori e un fremito gli parve percorresse l’acqua del lago da sotto alla superficie. Si fermò in ascolto. Niente di sospetto. Provò a dare un giro più largo al volano. I rumori si fecero anch’essi decisi, l’acqua del lago ribolli appena appena. Riportò senza fatica il volano nella sua posizione di stasi.
Ora che gli invasi dei laghetti erano terminati e impermeabilizzati l’idea che gli sorse fu quella di pompare intanto l’acqua del lago sotterraneo fino su ai laghetti : una soluzione temporanea. Fece comprare diverse centinaia di metri di tubo da 18, due pompe elettriche da non si ricordò poi quanti kilowatt, dei radiotelefoni, alcuni proiettori elettrici a led per illuminare e il tratto buio del camminamento sotterraneo, e più di preciso la zona del lago. Quando tutto fu pronto, allacciate le condotte definitive dei laghetti ai tubi provvisori e collegati i radiotelefoni con due uomini in superficie e due alla pompa d’acqua mediana scese con un altro assistente giù giù fino all’invaso sotterraneo. Mise il suo uomo alla manovra del volano e diede il via all’operazione. Si accesero le pompe, e su in giardino si accese anche la curiosità. Gli occhi di tutti, anche e soprattutto dei signori *** che, se avevano stanziato senza un buff tutta l’enorme cifra atta a progettare e realizzare quell’insieme di laghi finti con i loro annessi, comprese, luci e sdraio, gli ombrelloni e l’impianto stereofonico subacqueo, avevano trovato un po’ da ridire sulla fattura per l’impianto provvisorio di pompaggio per l’acqua. Ma la garanzia che fosse necessaria prima di spendere altri soldi per un una condotta fissa li aveva convinti. Tant’è. L’acqua prese a salire su per i metri e metri del tubo dal lago ai laghetti : urla e fischi di entusiasmo accolsero il primo fiotto di liquido, limpidissimo e gelato. Una meraviglia. Ma sotto Grossòmo si dava conto che tanta acqua saliva quanto scendeva il livello del lago. Diede all’assistente l’ordine di dare pochi pochi giri di volano, con cautela ché, Con l’acqua prudenza. Poi confortato dal fatto che borborigmi a parte, era evidente che nel lago stava entrando acqua, proseguì con l’ordine di dare per gradi di volta al volano. Tutto andava per il meglio. Ma non del tutto. Dopo alcuni minuti il metallo del volano prese a fremere e lamentarsi, dalla mezza sfera arrivò un lugubre ululato, l’acqua del lago prese ad agitarsi. Poi di colpo Grossòmo non abbe il tempo di gridare, Ferma tutto. La mezza sfera esplose dal muro dov’era infissa e fu scaraventata contro la parete opposta da un getto d’acqua dirompente, lo stantuffo fu espulso dal suo cilindro, il volano si torse sul suo asse e si bloccò. L’acqua travolse tutto e tutti, cioè Grossòmo e l’altro uomo.
Furono spinti al limite dell’affogamento, per centinaia di metri oltre il lago, strapazzati, strattonati, sbattuti contro pareti di un condotto di roccia all’insù questa volta, sparati in aria tra accidenti, dolore e terrore. Ma furono sputati in un folto selvatico e alla luce del sole, anche se piuttosto rotti, graffiati e pesti. Qualche tempo dopo, con uno schianto la terra si aprì sotto la villa e la inghiottì, si formò una specie di gola o forra o canyon, una ferita della terra che l’acqua riempì in buona parte sommergendo così ogni cosa. Un lago. Tant’è.
L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl