L’ElzeMìro – Delitti e vendette 3

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                                           Edward Hopper – Early Sunday morning, 1930 – Whitney Museum of American Art, New York

                                                      3 Il Magnafògo

Il était un petit navire/Qui n’avait ja-ja-jamais navigué/Ohé ! Ohé  – Canzone tradizionale francese

Sono gli escrementi, a tenerci legati all’umano, id est scarto in gestazione. Dubbio o enigma, Freud non arrivò a scioglierlo o tacque per beneficenza, tutto occupato peraltro a costruire l’avvenire de’ suoi balocchi a molla, vùlvole e glàndili; beati gli angeli, che degli dèi non partecipano ai banchetti carnivori e si accontentano del bisogno di non averne…. ciò considerando, che sia villano uccidere di no non si dice, ma infin’ non è mal così grave…. Il était un petit village, un paesetto costruito su una balza dirupata e irta di vegetazione selvatica, nell’intrico laggiù della quale s’infrattavano le rapide d’un fiume; aveva tutti i requisiti del pittoresco il paese, scalinatielle atte ai take-a-picture, ànditi cònsoni a un bacio ancoraa, oricalchi discreti ai portoni, rintocchi dell’angelus e, raccolte quanto la chiesuòla d’un bastimento, chiese, nell’aurora delle quali qualsiasi ragazza modesta si sarebbe sognata o inanellata per perderla o incoronata per serbarla, la verginità; al villaggio mancavano però i vantaggi del turistico, ovvero botteghe d’òlivewood, stone d’alabàster, pure leather hand made, diedà d’osterie; motivo di questa lacuna non erano gl’avidi riti d’un feudatario ma il castigo del Magnafògo. Perché, mah. Occhi di bragia, capelli serpentini, era arrivato un giorno lontano, pilotando una motrice dai bislunghi rimorchi, quel nome, Magnafògo, pittato a centoventuno colori sulle fiancate; alle porte del paese, là dove la balza s’allargava, quasi Natura volesse colà rivelare il segreto d’un futuro parcheggio, egli s’era accampato e, per marchingegni segreti, dei rimorchi aveva fatto fortezza, un anello ferrato con al centro un tendone o chapiteau; la sera cento di quelle tòrtili colonnine che un tempo segnalavano all’irsuto passante le barberìe, illuminavan le mura. Da tredici anni Magnafògo dominava la balza esibendosi ogni domenica nel tendone in certi suoi spettacoli d’illusione e destrezza, con fuochi e briccabràcchi pericolosi, sia ne inghiottisse e poi sputasse, sia che da ampolle sortisse prodigi di trasmutazione; dal tramonto a notte un canto si diffondeva rapinoso tutt’intorno all’anello, dalla notte al tramonto seguente pareva ne vagasse non l’eco ma l’orma; come compenso di quelle rappresentazioni il Magnafògo esigeva offerte, di bimbi; tra lacrime d’incanto, tragedia e lamenti d’agnelli all’olocausto, sospinti dai genitori o medusatib da un’ odìssea inclinazione all’azzardo, i bimbi sparivano, prigioni. Dei viaggiatori il destino era fatale. Come d’ogni favola truce nell’infelice andazzo, dalle ciminiere del forte spesso alitava un’insolito fumo azzurro e cherubino. Un certo giorno, chi vivo attendeva la sorte risolse però di ribellarsi, Uccidiamo il magnafògo, si diedero parola i bimbi e non poco ardimento servì loro per forzare catenacci e paletti, armarsi di coltelli e mannaie nella cucina ricca d’ogni moderno conforto. Magnafògo si stava in quell’attimo esibendo e, al soffiar fuori sue vampe, fu sorpreso da chi che correndo di lui tra le gambe ne falciò entrambi i ginocchi; un urlo e Magnafògo fu a terra, altri troncarono ai capelli le doppie punte serpentine, in tutti strillando gli furono addosso, recisero, incisero, trinciarono i bambini, senza esitare, gli aprirono il petto; ne uscì un rombo, un sibilo di caldaia, un rigurgito bituminoso, fiumi di trippe fumanti come mille officine e…. Nel silenzio che concluse il macello, si versarono fuori dal corpo ticchettando solerti, orologi, decine, decine e decine, d’ogni tipo e misura, meccanici e ben oliati. Orologi.

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a lezione dubbia; forse da Ciao, ciao, bambina, un bacio ancora/ E poi per sempre ti perderò,  canzone di Domenico Modugno, 1959; in questo caso la citazione connoterebbe una trista fatalità 

b francesismo da meduser, incantare, impietrire.

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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