L’ElzeMìro questo 5 Aprile è assente giustificato e lo sostituisce, prestandosi a tradurlo e forse chissà tradirlo, il suo eterònimo P.E.D. D’Ascola.
In sostanza però i due sono d’accordo nello scrivere per paradosso il silenzio, il minuto silenzio dei parenti dolenti ai banchetti funebri. Si mangia e si beve commisurando l’atto del continuare a vivere, alla certezza del morto che è stato e che siamo; morti in contumacia cui si dedica, tra le parole e con le parole, il silenzio dell’anima ferita e che, disdetta, si affanna a dimostrarsi viva. Finché può. Pensiamo D’Ascola e l’Elze Mìro (eterònimo dell’eterònimo) che se, mentre il mondo brucia non smettiamo per un attimo di farci i capelli, da testimoni ci facciamo complici. Abdichiamo dal ruolo di parenti per assumere quello di apparenti. Tempo fa in un bel film di Roger Michell, Il ritratto del duca, l’avvocato difensore del protagonista, citandone una perla, dice alla Corte, … Perché io sono voi e voi siete me… e lui… e tutti.
Ora l’assunto per cui l’Elze Miro fu assunto è che qui non si toccano tasti sgraditi o sgradevoli che, in un certo senso, non si prende partito. Ma come si può lasciar parlare l’animella bella di giochi di perle all’urlo nero della madre, al lamento d’agnello dei fanciulli, tra i morti abbandonati nelle piazze. Si può. Ma fino a un certo punto. Oltre, occorre andare oltre la apparenze e ricordarsi che, in vita, un ruolo occorre assumerlo, quello di parenti. Non si può tuttavia essere parenti di tutti a mmuzzo. Questo vezzo lo si lascia ai cristiani. Molto cenere alla cenere, ash to ashes, molto terra-terra, l’Elze e P.D. si limitano a ricordarsi parenti di alcuni fino a confondersi con essi: io sono voi e voi siete me, noi… Siamo le donne violate, i bambini bruciati, i vecchi storpiati da una pallottola nella nuca, i piccoli operai di un benessere faticato e conquistato per la libertà dal bisogno, non per le concessioni del Tiranno.
Ecco queste parole nostre si possono mandare al diavolo, non leggere, o tramutare nel dovuto silenzio. Invece, queste di Piero Calamandrei – chi fuera costui, domanderebbero i piccoli lettori di Elze Mìro – vanno invece, rilette e per benino e al chiaro di queste lune.
Al nome Kesserling, altro Chieracostui, sostituire con guizzo poetico il nome Vladimir Vladimirovič Putin, al quale l’aggettivo camerata si addice alquanto: più nero del nero, il tenebroso. Vedano poi i piccoli lettori come sostituire italiani. Resistenza, a lettere capitali, non credo debbba essere toccato.
L’epigrafe di Piero Calamandrei per il camerata Kesselring
« Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA »
Albert Kesselring era il comandante delle forze di occupazione tedesche in Italia. Nel 1947 fu processato per crimini di guerra e fu condannato a morte. La condanna fu poi commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu liberato per via delle sue condizioni di salute e dopo il suo ritorno in Germania disse che gli italiani dovevano essergli grati e avrebbero dovuto dedicargli un monumento. Piero Calamandrei, partigiano e politico italiano, scrisse questa epigrafe.
(la nota da Il Post del 25 aprile 2016)