L’ElzeMìro – Ah il nostro Manzoni, disse la professoressa.

Indietro fin dove riusciva a ricordarsi, fino ai tempi della sua piccola lugubre infanzia, sottratta alla miseria dell’inettitudine da occhiuti reverendi, che di lui avevano fotografato l’inadeguatezza e per le arti e per l’artigianato e per una fatica qualsiasi ma il talento nel sottrarsi, nell’inventare scuse a orecchio con le parole strane della chiesa che avrebbe imparato presto a sciorinare senza intenderle, Don Abbondio ha sempre avuto nel sonno la sua croce; mai è riuscito a placare i fiati, gli scricchiolii, i clik e clak, i silenzi e le voci della notte riconducendoli al loro motivo razionale e senza trasformarli invece, nel corso di interminabili dormiveglia, nell’incubo di un qualche mostruoso agguato.

donabbondioQuella sera famosa, quella che un dio vigile come dovrebbe non avrebbe dovuto sposare con il giorno, aiutato dai più inquieti decotti e da un eccesso di vino cui non si sottraeva, Don Abbondio scivolò sotto le lenzuola, anche sotto le coperte naturalmente perché paura e freddo non di rado sono compagni e, nonostante frizzolasse là sotto ai suoi piedi il prete*, ironia dei nomi, cominciò nel buio a sgrovigliare sentimenti e immagini paurose. Un tarlo che di giorno non si sarebbe azzardato prese a rodere un trave ed ecco che assume dimensioni e carattere di famelico dèmone… un baco, un insetto, sono un’inezia della creazione ma provare a immaginarli in misure di corvo, di cagnone o mulo, da restarci… e il suo del tarlo il morso risuona nel mezzo sonno, non di più ma uguale a una minacciosa scansione del tempo, a uno stellare intrico di chele intorno a una bocca nera, che prima lo afferra e sballotta su è giù e poi finisce per deglutirlo. Il mattino seguente Don Abbondio cercato e ricercato per motivi professionali, un’estrema unzione, non c’è più, non c’è nel suo letto, né precisiamo nel letto di Perpetua, del resto lei se ne sarebbe accorta almeno un po’; non allo scrittoio, non nel casotto chiuso in fondo all’orto della canonica, né in cucina, niente Don Abbondio. Ovverosia c’è, dietro la tendina purpurea del confessionale; minuscolo sul suo seggiolino imbottito è una figurina nera in gabbana e papalina, sperduta a strologare un salmì di salmi insensati. Don Abbondio era sparito, inghiottito dall’imprevedibilità del suo mostro. Piccolo. Lugubre.

*in settentrione mònega o preé, era lo scaldaletto a braci con cui in inverno si scaldavano i letti per la notte. Perché prete o monaca è birichino immaginarselo.

FILETTO alle 14.29.30

Alberto SordiContestazione generale  – 

Alberto Sordi – I promessi sposi

Tino Carraro – I promessi sposi  

Alessandro Manzoni – I promessi sposi Mondadori

BA 10

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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