La mia vita è un paese straniero – Brian Turner

Titolo: La mia vita è un paese straniero
Autore: Brian Turner
Casa Editrice: NN editore
Genere: memoir
Traduttore: Guido Calza
Pagine: 196
Prezzo: 18

La mia vita è un paese straniero è un libro straordinario. Letteralmente, in senso etimologico: extra-ordinario, fuori dall’ordine e dal consueto. Attraverso una scrittura antiretorica e altamente evocativa, a dieci anni di distanza dai fatti narrati, il racconto parte da una visione: sdraiato nel suo letto di casa accanto alla moglie, Turner sorvola, come un drone sulla mappa del mondo, Bosnia, Europa, Iraq, Vietnam, Cambogia e Giappone. Alcuni sono paesi nei quali ha combattuto lui, in altri invece avevano già combattuto suo padre e suo nonno. Se la storia si ripete, il continuo testacoda fra passato e presente s’intreccia nei tessuti dell’autore come fili dell’ereditato DNA.

Nel 2003 il sergente Brian Turner, arruolato per 7 anni nell’esercito americano, si reca a Mosul (Iraq) per una nuova missione: “Firmai il foglio e mi arruolai in fanteria perché a un certo punto della vita dell’eroe, l’eroe deve dire Giuro […] Mi arruolai in fanteria perché sapevo, anche allora, che gran parte di quel che ho appena detto è una stronzata, o quantomeno non darà risposte” (31).

Turner parte in missione come carne da macello (“Dissi Fanteria perché in effetti non sapevo se avrei potuto farcela, se avrei potuto sopportarlo, se mi avrebbe fatto a pezzi e masticato senza più smettere. […] Firmai perché sapevo, a un livello profondissimo e immutabile, che sarei partito e mai tornato”, 40), ma torna illeso a casa, dove si dedicherà alla scrittura e alla poesia. Extra-ordinario, appunto. Così questo libro non può che essere narrato attraverso immagini (da sempre care ai poeti), mini capitoli senza alcun numero di pagine (a imitazioni delle sure?), flash alternati di passato e presente, frammenti da ricomporre come i corpi smembrati dalle granate e dai reciproci assalti.

La guerra, come la poesia, comporta una metamorfosi, trasforma ogni pensiero in metafora. Ma se la prima produce cambiamenti strutturali col solo fine di alimentare nuove tensioni, la seconda ridefinisce e medica permanentemente le rizotomie dell’anima. In quest’ottica, anche il concetto di “nemico” viene man mano risemantizzato, trasformandosi semplicemente nell’altro che gli si para davanti a specchio.

Entrambi, infatti, sono nel posto sbagliato per i motivi sbagliati. Soldato in Iraq, veterano in America, Brian, “troppo limitato per poter fare spazio a un essere umano” (101), è un ragazzo che crede di sentirsi chiamato alle armi dal destino (con un padre che a sua volta ha combattuto in Vietnam e un nonno che è passato attraverso le due guerre mondiali), ma in realtà non è mai riuscito a trovare un modo credibile di cavalcare il sogno americano. La sua casa è sempre altrove, è sempre un paese straniero: “Mosul è dentro di me. Tutti i suoi edifici. Tutto il suo fumo e il suo smog. Il suo milione e settecentomila abitanti. Il quartiere universitario e i ponti sul fiume serpeggiante. Le botteghe dei barbieri e i furgoncini del gelato e le pecore che pascolano tra le rovine di Ninive. I minareti” (63).

E allora la guerra, come la poesia, è anche una discesa agli inferi, condizione necessaria affinché lo stesso eroe possa superare la paura di vivere (102) e capire che la battaglia più pericolosa da combattere è quella contro sé stessi: “Forse il punto non è tanto che è difficile tornare a casa, quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo portarci. L’America […] non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi soldati porta a casa” (134).

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