
Autore: Liliana Colanzi
Data di pubbl.: 2017
Casa Editrice: Gran Vía
Genere: letteratura contemporanea, Raccolta di racconti
Traduttore: Olga Alessandra Barbato
Pagine: 125
Prezzo: € 13,50
Liliana Colanzi è una scrittrice boliviana, nata nel 1981, vincitrice nel 2015 del premio Internacional de Literatura Aura Estrada. Due anni fa ha pubblicato in patria Nuestro mundo muerto, una raccolta di otto racconti, ora tradotti per il pubblico italiano dalla casa editrice Gran Vía. Il libro è introdotto, in epigrafe, dai versi di una canzone ayorea: questo è il tronco di tutte le storie, parla del nostro mondo morto. Una citazione che è già un indizio. Le radici dell’albero non attingono solo alla tradizione letteraria sudamericana del racconto magico, alla corrente dell’onirico e del surreale, ma virano con nettezza verso una particolare sfera del soprannaturale, elaborata da culture altre, indigene appunto. La scrittrice non opera una semplice commistione di stili o di registri linguistici. La sua è un’operazione più radicale, basata sul vaglio intuitivo e sulla progressiva scoperta di antropologie e verità sepolte. Liliana Colanzi è un’esploratrice di mondi in bilico tra dimensioni confliggenti e condannati ad un’impossibile coesistenza.
Tutti i racconti sembrano rispondere a richiami cosmici e ancestrali, come se, sotto la superficie delle storie narrate, si agitasse, avvertito da pochi, un magma caotico pronto a fuoriuscire, ad invischiare i passi umani, a far precipitare le sterili contingenze nel vortice ribollente del mito atemporale. Così si spiega l’irruzione sulla scena dell’Occhio, ossessiva presenza che si aggira attorno alla giovane protagonista del racconto di apertura. Metafora dell’ansiogeno controllo materno o percezione di una reale frattura nell’ordine delle cose? Nel racconto successivo, la bara dove riposa il povero Alfredito, più che un duro giaciglio, pare un ponte tra la terra ed un altrove provvisorio. L’universitaria boliviana al centro della terza storia esprime in questi termini la sua esperienza con una misteriosa forza demoniaca, l’Onda: «era arrivata e io, che avevo passato gli ultimi due anni spostandomi da un paese all’altro nel tentativo di sfuggirle – come se fosse possibile nascondersi dal suo abbraccio gelato –, mi fermai davanti allo specchio per ricordare un’ultima volta che la realtà è il riflesso sul vetro e non l’altra cosa, quella che si nasconde dietro». L’Onda si insinua, tremenda e implacabile, nei ricordi d’infanzia, nelle tragedie improvvise, nelle allucinate leggende narrate dalle cholite (donne indigene). L’Onda si spande sugli oceani e sui deserti, si approssima all’orizzonte, si china sulla figura di un padre morente.
La scrittrice boliviana decostruisce il vivere banale di ogni giorno suggerendo una nuova e differente grammatica degli eventi. La fusione di stranezza e regolarità provoca nel lettore un sottile spaesamento cognitivo. Lo spavento non è apparecchiato nelle forme di un aggressore o di un predatore venuto a infrangere dall’esterno la quiete domestica: è nell’enigma dell’esistenza, nel suo midollo, che troviamo il codice segreto di predestinazione. La suspense è eco di sofferenze vaste e indeterminate, giù, ad affondare nella stirpe incaica della mota (Neruda), nel terreno oscuro su cui poggiano le nostre fragili possibilità, i nostri sforzi capovolti o revocati da una minaccia vicina ed esigente.
Un malanno fatale, in Meteorite, è anticipato da un segnale celeste, poi accompagnato da fatti inspiegabili, porte che si aprono da sole, bagliori nel cielo, un ragazzo rapito dal suo stesso presagio, uno scenario alla X-Files, se non che, in Liliana Colanzi, non prevale mai il gusto per l’effetto fine a se stesso. Non si può parlare di un’adesione piena all’horror o alla science fiction. In Cannibale, l’assassino seriale in libertà per le strade di Parigi è un’ombra sinistra che si allunga sulla sparizione di una donna, a sua volta impegnata in una losca missione nella capitale francese. La sua amante, macerata dall’angoscia in albergo, è accarezzata dalla vanitas, l’impalpabile insensatezza della vita, che nelle disgrazie ci compare davanti come un fantasma. «Cerco il cappotto giallo di Vanessa tra la gente che cammina per strada, ma il vetro si appanna con il mio fiato. Il vapore si disintegra e il rifleso mi restituisce i contorni della faccia del cannibale che fluttua sullo sfondo della strada».
La scrittura elegante e dinamica di Liliana Colanzi si muove con intelligenza tra diverse forme narrative, il diario intimo e la terza persona, la rievocazione passata e il libero flusso della coscienza presente. La scrittrice spagnola Sara Mesa ha individuato un termine appropriato per definire il tratto peculiare del talento letterario della sua collega: “sensoriale”. I personaggi sono vividi, quasi tridimensionali, in rilievo, come i piranhas disegnati sulla bella copertina della versione italiana. In Chaco, il racconto migliore, lo spirito di un uomo di etnia mataco, ucciso a freddo senza motivo come l’arabo ne Lo straniero di Albert Camus, si insinua nella coscienza del suo giovane carnefice, per renderla doppia. È l’inizio di un viaggio picaresco nella zona grigia dove vita e morte, bene e male si confondono, e la violenza cieca, naturale, proveniente da abissi insondabili, vince sulla volontà umana, come accade ai posseduti in stato di trance o ai tarantolati. «Mi addormentai tra lo sferragliare del camion e il vento che sbatteva contro il finestrino, e sognai che morivo e che dall’altro lato della morte mi aspettava un ragazzo bello come il sole. Io mi tagliavo la lingua e gliela consegnavo, e dandogliela rimanevo muto, ma il mio cuore lo chiamava con un nome: Mio Salvatore».
Il racconto che dà il titolo all’intera raccolta è ambientato su Marte, ma Il nostro mondo morto è la Terra, infettata da radiazioni nocive per la fertilità e, quindi, per la sopravvivenza della specie umana. Siamo destinati a far rivivere nei sogni, o nelle visioni, le nostre speranze abortite e distrutte dal mito del progresso? Avremo mai un appiglio per non cadere nel cielo? Infine, ne L’uccello, Liliana Colanzi adotta uno stile narrativo più marcatamente sperimentale, integrando nella storia gli studi antropologici di Lucas Bessire. Cosa si nasconde tra gli alberi della tenuta? Quale inenarrabile orrore, degno di Joseph Conrad, attira “il dottore”? «È finita, eccomi, non so che aspettarmi da ciò che mi si avvicina, da questo ronzio che esce dalla foresta come un’aura. Il sole mi batte sulla faccia. A pochi metri di distanza, scopro perché brilla: è un uccello meccanico con ali di metallo. Sono pronto, sono pronto, eccomi».
Anche noi siamo pronti a leggere altre prove di questa promettente scrittrice. A fine volume, un glossario di termini tipici della cultura amazzonica e boliviana consente al lettore di comprendere molte sfumature di contesto e di significato, altrimenti poco accessibili.