Presentazione “Il Dizionario delle cose perdute” di Francesco Guccini

“Nei libri faccio ridere, ma con le canzoni faccio piangere: ultimamente mi escono solo testi tristissimi….”

Questa è una delle tante battute regalate da Francesco Guccini ai numerosi appassionati, intervenuti presso la libreria Feltrinelli di Piazza Piemonte a Milano per assistere alla presentazione in prima nazionale del suo ultimo libro, il Dizionario delle cose perdute. C’eravamo anche noi de “Gli Amanti dei Libri” nella folla assiepata dietro i pochi posti a sedere.

Incalzato da Gianni Mura, Guccini percorre con la consueta ironia i brevi capitoli che compongono un libello  dalla copertina evidentemente vintage, che ricorda il pacchetto delle nazionali d’esportazione.

L’idea di fare una sorta di inventario di cose che ormai non esistono più è nata da un editor, ma l’autore è stato felicissimo di coglierla e lo comprendiamo bene da come ne parla, divertendosi a sottolineare gli aspetti più grotteschi e divertenti degli oggetti del passato.

Così tra una domanda e una risata del pubblico, composto anche da molti giovani e giovanissimi, scopriamo che le braghe corte erano davvero dei pantaloncini a mezza coscia, nonostante le temperature polari e che si passava poi ai pantaloni alla zuava prima di poter finalmente indossare i pantaloni lunghi. Nei giochi all’aperto spopolava rubabandiera, e in quelli da tavolo il traforo,  che veniva regalato insieme a un pezzo di compensato ma si rompeva subito  e la scatola finiva tra le altre illusioni dell’infanzia.

Stupisce la precisione dei dettagli del suo racconto, per esempio  su come si facevano la cerbottana con la biro e le palline per colpire le compagne di classe delle magistrali, il “liceo dei poveri”: dieci ragazzi contro venti femmine, nella classe più numerosa di quell’anno quanto a rappresentanza maschile. Si realizzavano delle vere e proprie battaglie con plotoni d’assalto contro le malcapitate, che si lamentavano in modo poco convinto. Ci si divertiva, ma non sempre, perché c’erano professori che seminavano il panico.

Si parla poi della carta moschicida, qualcosa di veramente disgustoso: si appendeva alla lampada sul tavolo della cucina e le povere mosche vi si appiccicavano, morivano lentamente e iniziavano a cadere… così nascevano accese discussioni: la togliamo adesso o dopo?

Per quanto riguarda il fumo, non potendosi sempre permettere le sigarette, si usava di tutto: foglie di rosa o di noce e rametti di vitalba. Racconta Guccini: “I miei nonni avevano foglie di canapa in un deposito e noi fumammo anche quelle. Qualche anno dopo mi offrirono una curiosa sigaretta e mi dissi: – io questo sapore l’ho già sentito…- Ma per me era un gioco.. non ho mai accondisceso a vizi turpi, questi in particolare”

Uno degli episodi più divertenti e curiosi, almeno per chi vi scrive, riguarda il cinema. Alla domenica si andava al salone parrocchiale con 30 lire, che venivano investite in bastoncini di liquirizia  e nel biglietto d’ingresso. Non c’erano mai i desiderati film di guerra o western, ma “Bernardette” o “Torna a casa Lessie” e le pellicole erano talmente vetuste da simulare una pioggia costante in tutte le scene. Si assisteva anche un altro fenomeno molto curioso: la voce pian piano spariva e la pellicola andava tagliata ed incollata con l’acetone, tra le proteste del pubblico che doveva aspettare diversi minuti. Non si mangiavano i popcorn, ma i semi di zucca, che richiedevano una certa abilità. La cosa che stupisce i giovani è che si andava al cinema quando si voleva, anche a metà del film, poi si riprendeva a vederlo fino a quando qualcuno diceva “siamo arrivati qui!”. Tra galleria e platea c’erano lanci di oggetti e simpatiche risse e quando si proiettavano western si usavano anche delle pistole giocattolo…

Da notare però che Guccini a Modena, quando marinava la scuola,  non avendo soldi  da spendere, andava nelle sale della Biblioteca Estense, dove scoprì l’Antologia di Spoon River o lesse una storia del Jazz e libri di fotografie… Il racconto prosegue parlando di cantastorie, antichi mestieri, vecchie bibite e  tubetti del dentifricio, ma a noi Amanti dei Libri piace lasciarvi con l’immagine di un adolescente curioso che legge Edgar Lee Masters… Il celebre poeta statunitense, morto nel 1950, era molto noto tra i cantautori e ispirò con i suoi versi, oltre al Maestrone di Pavana, anche il grande Fabrizio De Andrè.

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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