Autore: Nettel Guadalupe
Data di pubbl.: 2014
Casa Editrice: Einaudi editore
Genere: Romanzo
Traduttore: Federica Niola
Pagine: 160
Prezzo: 17.00 €
Nella Città del Messico di fine anni Settanta, seguiamo l’infanzia e l’adolescenza di una voce narrante che non tardiamo a identificare con l’autrice. Tutto comincia da un difetto fisico a un occhio, che costringe la piccola Guadalupe a portare di giorno un vistoso cerotto, in attesa di un intervento chirurgico risolutivo in età adulta. A questa diversità rispetto ai coetanei si aggiunge l’educazione ricevuta in una famiglia a dir poco anticonformista, all’insegna della libertà e dell’assenza di tabù. La teoria e la pratica della coppia aperta finiscono per provocare la separazione dei genitori della ragazzina, che si vede affidata per un certo periodo alla nonna materna, tradizionalista fino all’eccesso. In un secondo tempo, madre e figlia si ricongiungono in una banlieue della Francia del Sud, teatro delle prime esperienze sociali (fra immigrati) e sentimentali (con l’altro sesso). Solo alla fine del proprio percorso di crescita, la voce narrante prende coscienza che il corpo rappresenta il vincolo più stretto con la realtà, con tutti i suoi piccoli o grandi difetti.
Il corpo in cui sono nata è il primo romanzo tradotto in italiano di Guadalupe Nettel, una delle nuove voci della narrativa messicana. L’autrice dimostra una notevole abilità nell’alternare avvenimenti autobiografici a parti più propriamente riflessive. Il dato di partenza (“Portare quel cerotto provocava in me una sensazione di oppressione e d’ingiustizia”) passa quasi in secondo piano rispetto alla forza di carattere necessaria per imparare a vivere in un mondo tanto difficile. Anzi, la protagonista sembra trovarsi sempre in bilico tra vari mondi ma sempre al margine di ciascuno di essi, più o meno volontariamente, anche quando si tratta di attraversare l’oceano. In alcuni passaggi, però, la profonda sincerità del romanzo rasenta l’ingenuità adolescenziale, ad esempio nell’incontro con i magrebini della banlieue francese, presenza che forse non suscita un enorme stupore, almeno per il lettore europeo.
L’aspetto che lascia più perplessi riguarda il ricorso a un espediente narrativo: il dialogo con una psicoanalista, la dottoressa Sazlavski, che peraltro non prende mai la parola. Sono incursioni di breve durata, ma sufficienti a spezzare il ritmo del racconto e a far perdere un po’ di naturalezza all’insieme. È proprio questa naturalezza a rendere Il corpo in cui sono nata un’opera con uno sguardo sul mondo non comune. A volte, da una posizione defilata si possono scorgere particolari altrimenti indistinguibili.
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