Titolo: To the Lighthouse
Autore: Virginia Woolf
Anno: 1927
Edizione usata per la recensione: Cideb editrice, 1991.
Leggere To The Lighthouse, dell’impareggiabile scrittrice inglese Virginia Woolf, noto come Gita al faro nelle versioni in traduzione italiana, è affacciarsi su un piccolo, grande universo che unisce insieme i destini individuali dei personaggi ai dilemmi, alle speranze ai dubbi che accomunano ogni esistenza umana.
È un viaggio appassionante, attraverso il tempo, che dischiude i pensieri e i sentimenti più profondi dei volti che ne popolano la storia e che, a tratti, fa sobbalzare sulla sedia, per l’improvviso scorgere di una somiglianza, per il richiamo – flebile, magari, ma percepibile – a un pensiero o a un sentimento che si è sentito, almeno una volta, come famigliare.
Fra tutti, si distingue per la sua centralità – come nella maggioranza dei romanzi della scrittrice di Bloomsbury – una figura femminile: Mrs. Ramsay. È questa signora, così prodiga di affetto e di cure per il marito e per i figli, sempre attenta alle esigenze degli altri, a incarnare il ruolo di madre. Del resto, sembra che questo personaggio sia ispirato niente meno che a Julia Duckworth, che diede i natali a Virginia Woolf il 25 gennaio del 1882 e morì nel 1895, divenendo il primo e più grande lutto che afflisse la vita della tormentata figlia scrittrice.
Intenta a leggere una storia al piccolo James, nella grande casa al mare alle isole Ebridi, al largo della Scozia, è proprio Mrs. Ramsay la protagonista di uno dei brani più celebri di tutta la letteratura inglese, amato (o forse odiato?) da innumerevoli generazioni di studenti. Mi riferisco a quello in cui, attraverso la tecnica dello interior monologue – assolutamente innovativa quando il romanzo fu pubblicato nel 1927 e comune anche a James Joyce, che la condusse alle sue estreme conseguenze con lo stream of consciousness di Ulysses e di Finnegans Wake – la mente di Mrs Ramsay si muove, per associazioni, da un aspetto ad un altro della sua famiglia e di se stessa, scoprendo sfumature nascoste a uno sguardo meramente raziocinante sulla realtà.
Emerge, così, il suo orgoglio per le innumerevoli qualità di Andrew (il maggiore) e di James, e delle piccole Prue e Cam, il suo ardente desiderio di non veder mai crescere i figli perché non perdano la gioia della fanciullezza, nonché le differenze profonde fra sé e il marito. Mr Ramsay, infatti, ispirato a sua volta a Leslie Stephen, il padre filosofo e letterato di Virginia Woolf, non sopporterebbe di sentir profferire certi illogici pensieri alla consorte – la sgriderebbe sicuramente, se dicesse di desiderare un’eterna infanzia per la loro prole.
Polo femminile e maschile, Mrs Ramsay e Mr Ramsay rappresentano istinto e ragione, natura e cultura, intuizione e attenzione ai fatti. Allo stesso tempo antitetici e complementari, i due personaggi riproducono in una certa misura i tradizionali stereotipi sull’identità della donna e dell’uomo, pur nella loro complessità.
Del tutto diversa da Mrs Ramsay, la pittrice e amica di famiglia Lily Briscoe è invece espressione della forza creatrice attraverso l’arte, imbrigliata, però, e in gran parte repressa, dai pregiudizi della società del tempo, dominata da una visione patriarcale. Profondamente insicura e intimorita dal ricordo di giudizi poco lusinghieri sulle abilità delle donne in campi che non siano il cucito e le tradizionali mansioni domestiche, sarà tuttavia proprio Lily ad offrire una chiave di lettura all’intero romanzo, quando, finalmente, terminerà il ritratto della signora Ramsay e del piccolo James intrapreso, senza mai ultimarlo, ben dieci anni prima.
La funzione simbolica di questo successo è più chiara, ovviamente, considerando l’insieme della storia.
Se la prima sezione del libro (“The Window”) ci presenta la dimensione felice della famiglia Ramsay e dei loro amici Briscoe e Tansley alle Ebridi, la seconda (“Time Passes”) ci fa amaramente scoprire le tante tragedie che col tempo ne segnano le vicende: la morte della signora Ramsay, prima di tutto, ma anche di Andrew, caduto in guerra, e di Prue, dopo il parto. Solo nell’ultima, intitolata “The Lighthouse”, il cerchio si chiude e un residuo di senso nell’apparente caoticità degli eventi viene offerto dalla gita al faro, compiuta dal vedovo Mr Ramsay e dagli ormai cresciuti James e Cam. Questo piccolo evento acquisisce un significato altamente simbolico, perché nella prima parte del romanzo le attese di James, in particolare, erano state disilluse dal mancato svolgimento della gita a causa del maltempo e del diniego del padre.
In ricordo dei loro cari perduti, l’andare verso il faro diventa al tempo stesso un modo per ricordarli e per salvare allo scorrere inesorabile del tempo almeno una possibilità, un’opportunità di mantenere collegati il passato e il presente, di colmare un piccolo, grande vuoto. Tentativo di elaborazione del lutto, la gita è infine anche un rito di passaggio, da una generazione ad un’altra, che ne riceve l’eredità.
Un valore simile è quello del ritratto di Lily Briscoe, che recupera alla memoria il volto di Mrs Ramsay e lo fissa, per sempre, sulla tela, salvandolo all’oblio. La forza, in parte salvifica, dell’arte consola i superstiti e regala l’illusione o la speranza che nulla sia veramente perduto, che di quanti e quanto si è amato resti, almeno, una traccia imperitura.
Classico della letteratura, in grado di parlare all’anima di chi legge, questo romanzo è uno dei migliori esempi dell’incredibile talento di Virginia Woolf. Da sottolineare, a mio avviso, anche la bellezza della seconda sezione, “Time Passes”, in genere poco citata, in quanto funge in apparenza da importante ma puramente funzionale raccordo fra la prima e la terza.
In realtà, nel mostrarci la casa vuota dei Ramsay alle Ebridi durante le diverse stagioni, Virginia Woolf ci regala pagine di maestria narrativa e sottile poeticità, descrivendo i tanti, minuti e impercettibili cambiamenti che avvengono fra le sue mura. Lo scricchiolio dei cardini di porte debolmente mosse dal vento che si insinua dalle fessure delle finestre, il tessere laborioso di ragni negli angoli più sperduti, il posarsi della polvere sugli oggetti quotidiani, lo scolorirsi delle pareti e il mutare dei fasci di luce che penetrano dalle persiane al cambiare delle stagioni: tutto è vivo e in movimento, nonostante appaia immobile e silenzioso a un primo sguardo.
Proprio come i personaggi, come le donne e gli uomini che l’hanno abitata e l’abiteranno, la casa esiste in un incessante flusso, simile a quello della coscienza umana, che in questo capolavoro della letteratura del Novecento – influenzato dagli studi psicoanalitici di Freud e dal mutare della concezione del tempo in senso Bergsoniano – ha trovato una delle sue più alte espressioni.