Titolo: Il Signore degli Anelli (The Lord of the Rings)
Autore: J.R.R.Tolkien
Prima edizione: pubblicata (in tre volumi) tra il 1954 e il 1955
(Recensione a cura di Saverio Simonelli)
Doveva essere il “nuovo Hobbit”, il prosieguo del fortunato romanzo per ragazzi pubblicato da Tolkien negli anni ’30 e che l’editore attendeva oramai da molto tempo; invece, poco a poco, crebbe a dismisura nella mente dello scrittore e sulla carta, o meglio, gli sfuggì letteralmente di mano, come capita spesso alle storie. Il Signore degli Anelli, oramai un classico del Novecento, è, in ogni angolo del pianeta, sinonimo di Tolkien, il contegnoso ed eruditissimo filologo oxfordiano che fin da ragazzo aveva sognato di dare un’epica alla sua Inghilterra, sfruttando un amore smisurato per le lingue germaniche, per la tradizione che risaliva alle Migrazioni dei popoli, per quei versi ruvidi e arcaici tramandati oralmente e che sapeva recitare perfettamente a memoria.
Soldato nella prima guerra mondiale, Tolkien vergava il profilo di quello che sarebbe stato il suo Immaginario sul retro dei dispacci di trincea. Rientrato in patria, poi, venne assunto all’Oxford English Dictionary dove per un paio d’anni compilò fantasiose ma rigorose etimologie riempendo le schede assegnategli dal curatore fino all’ultimo centimetro di carta disponibile. Subito dopo, la carriera Università: Leeds e poi Oxford dove ingaggiò un’aspra battaglia a favore dell’insegnamento linguistico contro il debordare di quello meramente letterario e incantò con le sue tonanti letture del Beowulf centinaia di studenti, tra i quali il grande poeta Wystan Hugh Auden che lo idolatrò per tutta la vita.
Il Signore degli Anelli, pubblicato infine a metà degli anni ’50, un libro alla volta perché la carta scarseggiava, potrebbe sembrare un paradosso data la complessità e la ricchezza della trama. Nacque come topografia di uno spazio che Tolkien aveva creato per “trovare casa” ai suoi linguaggi inventati, tra i quali spicca l’elfico, una singolare ed elegantissima fusione tra il gallese e il finnico. Ed è uno spazio che ricalca il nostro mondo, solo in un’immaginata Era in cui i poteri magici degli Elfi stanno ritirandosi per cedere il posto agli uomini e dove incombe la minaccia dell’Oscuro Signore, Sauron, che vuole soggiogare ogni popolo al suo volere.
La storia si può solo provare ad accennare: in breve si tratta del viaggio di un gruppo di personaggi – la compagnia dell’Anello – verso Mordor, la regione brulla e desolata che è la roccaforte del nemico, allo scopo di distruggere, tra i fuochi del Monte Fato, l’Anello del potere che apparentemente rende il suo portatore invisibile, ma che in realtà ne succhia ogni energia mentale e fisica per asservirlo al potere di Sauron, colui che lo forgiò. Nel corso del viaggio si formeranno alleanze, si verificheranno scontri aspri e vere e proprie battaglie, si svelerà l’identità del Re destinato a dominare benevolmente quella terra e soprattutto si esalteranno le qualità dei veri eroi della storia: gli Hobbit, i mezzuomini che con la loro bonaria testardaggine, la generosità, l’irriducibile anelito verso la speranza – senza tralasciare il desiderio di un buon pasto succulento e tranquillamente consumato – avranno la meglio sugli antichi e possenti eroi.
E qui si leggono le novità della storia di Tolkien, che è sì una “quest” – un viaggio di ricerca come nella tradizione medievale – ma è rovesciata, perché è un’impresa a perdere, intentata per disfarsi di un talismano, non per trovarlo o riscattarlo. Gli Hobbit stessi sono poi dei personaggi assolutamente eccentrici, disomogenei ai dettami dell’epica. Goffi, pigri, piccolo borghesi in tutto e per tutto sono coloro che “muovono dai prati della Contea per scuotere le torri dei Grandi “ come si dice a un certo punto del romanzo.
Pensiamoci bene: senza di loro il mondo di Tolkien sarebbe stata una creazione epigonale, una versione riammodernata di storie già lette e dominanti nel nostro Immaginario: dai poemi omerici fino alla Chanson de Roland, al Parzival; ideare questi antieroi significa invece per Tolkien rendere l’epica una cosa del Novecento, inserendo come un tarlo che nello sviluppo della storia si mangia tutta la tradizione, ne rovescia la logica, esalta il ruolo del piccolo a discapito di un eroismo eclatante, supponente, borioso che non ha più armi per contrastare il nemico.
Solo la rinuncia, il sacrificio, un senso fortemente etico della propria missione prevarranno sui calcoli di Sauron, che non riesce neanche a immaginare che qualcuno possa disfarsi dell’anello rinunciando così all’idea stessa del potere. La creatura piccola e umile dà scacco alla maestosità conturbante e mortifera di un Potere oscuro ma cieco alla vera nobiltà dell’animo.
In questo ennesimo rovesciamento di prospettiva, che rispecchia la logica del Magnificat, si legge in controluce la profondissima religiosità di Tolkien, cattolico osservante in un Paese anglicano, devotissimo al culto della Vergine, talmente impregnato della sua fede da togliere volutamente un qualsiasi riferimento a culti o divinità nella sua storia.
Che resta anzitutto un’avventura entusiasmante, ma che si svela nella sua intelaiatura culturale a una lettura neanche troppo approfondita: gli usi di alcuni popoli richiamano quelli degli antichi anglosassoni; alcune frasi sono tratte di peso dal Beowulf; la cura nelle descrizioni di personaggi, animali e ambiente naturale è un continuo omaggio ad autorevoli precedenti dell’epica.
Su tutto, l’impressione di un mondo che nella sua creazione fantasmagorica resta credibilissimo, proprio perché attraverso i suoi Hobbit Tolkien trascina il lettore all’interno della Terra di mezzo. Questi eroi riluttanti ma che non perdono il filo della storia e soprattutto della loro dignità, questi esseri inventati in un pomeriggio di correzione di compiti scritti ma che sarebbero divenuti, anche grazie alla riduzione cinematografica di Peter Jackson, una vera e propria icona del nostro immaginario contemporaneo.