Titolo: La coscienza di Zeno
Autore: Italo Svevo (alias Aron Hector Schmitz)
Anno della prima pubblicazione: Cappelli, 1923
Edizione usata per la recensione: Giunti, 2009
La Coscienza di Zeno è l’opera più importante di Italo Svevo, l’ultima, quella che raccoglie i temi a lui più cari. E’ il racconto della vita di Zeno Cosini, che scrive per il Dottor S., uno psicanalista da cui è stato in cura e di cui dice: “Anche lui dev’essere un istericone che per aver desiderata invano sua madre se ne vendica su chi non c’entra affatto” (pag. 382). L’inizio del libro parla della dipendenza del protagonista dal fumo; che addirittura si fa rinchiudere in ospedale pur di smettere, ma da dove scappa per continuare a fumare ripromettendosi sempre di accendere l’ultima sigaretta. La morte del padre che lo lascia nel più terribile dei modi (ovvero dopo un litigio) è una dura prova per il protagonista: “La morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: la certezza di dover morire” (pag. 80).
Il racconto prosegue con la conoscenza della famiglia Malfenti. In primis il padre Giovanni che lo introduce nella sua casa e gli presenta la moglie e le quattro figlie. Così Zeno si innamora subito di Ada, la maggiore e la più bella, tanto da chiederle di sposarlo ma la ragazza rifiuta prediligendo la corte del giovane violinista Guido. Il protagonista allora ripiega sulla secondogenita dei Malfenti, Augusta, la sorella più brutta, che accetta di buon grado. La parte centrale del romanzo è imperniata sul matrimonio con Agusta, che definirà la sua “cura”, infatti lei con i suoi modi materni riuscirà a dare conforto all’animo tormentato del marito: “Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi…” (pag. 151). Nonostante ciò, il debole Cosini, non sa rinunciare al fascino di avere una relazione extra coniugale con Carla, la sua “protetta” e questa esperienza movimenta la noia della sua vita borghese.
L’ultima parte è dedicata al racconto di un altro tipo di avventura, quella con il cognato Guido, nella società commerciale da lui fondata. Emblematico è l’affare delle “sessanta tonnellate di solfato di rame” che inizia per errore e che costerà moltissimo ai due soci. Di Guido parla in questi termini: “Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che c’impedivano ogni sana operosità” (pag. 261). E usa quest’ immagine per descrivere il loro rapporto: “Del resto quando due si trovano insieme, non spetta loro decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva l’affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo” (pag. 262).
In conclusione l’autore tira le fila di una vita, facendo un resoconto sulle scelte, molto spesso sbagliate, prese da Cosini; inoltre, scoppiata la Grande Guerra, la fine del romanzo è sicuramente una riflessione sul destino dell’uomo. Il romanzo è ambientato a Trieste e Svevo ci fa percorrere le strade della città: la Corsia Stadion, i volti di Chiozza, il Corso, Sant’Andrea, il Tergesteo. L’arco temporale descritto è quello che va dalla fine dell’800 alla prima Guerra Mondiale.
La trama non è la cosa più importante di questa storia perché stile e narrazione sembrano costantemente tese a scoprire le sfaccettature dell’animo umano dando forma, allo stesso tempo, ad un’architettura che stupisce il lettore. Ancor di più si rimane meravigliati davanti a certi passaggi che, tratteggiati con grande forza descrittiva, riecheggiano anche presi fuori dal contesto. Il libro è puntellato qua e là con dei veri e propri aforismi, come questo: “Le donne son fatte così. Ogni giorno che sorge porta loro una nuova interpretazione del passato. Dev’essere una vita poco monotona la loro” (pag. 217).
Svevo è stato uno di quegli autori che si è auto pubblicato, probabilmente un’eccezione che conferma la regola, ma va pur sempre detto che i critici italiani del tempo non lo capirono e fu il suo amico James Joyce a farlo conoscere al grande pubblico. Svevo è sicuramente stato rivalutato con il tempo e nel suo “La coscienza di Zeno” gli studenti (in particolare delle scuole superiori) possono confrontarsi con un protagonista che fa emergere interessanti riflessioni su atteggiamenti negativi. Questo per sottolineare, ancora una volta grazie ai classici della letteratura, che dagli errori si può imparare così come Zeno sembra essere completamente rinsavito dopo una vita “buttata via”.
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