Titolo: Il grande Gatsby
Autore: Francis Scott Fitzgerald
Prima edizione: 1925
Edizione usata per la recensione: Mondadori, 1969 (traduzione di Fernanda Pivano)
In questi giorni, dopo la presentazione al Festival di Cannes e l’uscita nelle sale cinematografiche del film diretto da Baz Luhrmann, un grande clamore ha investito nuovamente l’opera di Fitzgerald da cui è tratta la sceneggiatura della fortunata pellicola. Il grande Gatsby, romanzo scritto nel 1925 che confermò il successo già ottenuto dal giovane autore americano con Di qua dal Paradiso, torna oggi a far parlare di sé rivelando ancora una volta il proprio fascino. E al di là delle inevitabili semplificazioni che comporta un’operazione divulgativa di grande successo popolare come la trasposizione cinematografica, è sempre da apprezzare il rinnovato interesse per un classico della letteratura. Oggi come allora, nella realtà così come nella finzione romanzesca, una curiosità accesa si addensa intorno a questo nome – Gatsby – la cui grandezza solitaria è già anticipata da un titolo che sembra promettere molto. Ma chi è questo Jay Gatsby? Nessuno, a dir la verità, lo sa con certezza. Tutti a New York ne parlano, ma di certo ci sono solo le feste strepitose tenute nel suo palazzo che nelle notti estive accoglie gente di ogni tipo: eventi cui non si può mancare, espressione sfrenata dell’opulenza e dello sfarzo degli anni del boom, gli sfavillanti anni Venti. Ma un punto di vista privilegiato ci consente di avvicinarci al palazzo e al suo misterioso proprietario: Nick Carraway, giovane di belle speranze appena trasferitosi a Long Island, si trova casualmente ad essere il vicino di casa di Gatsby. È sua la voce raffinata dell’io narrante:
«La sagoma di un gatto oscillò nella luce lunare, e voltando il capo per guardarlo mi accorsi che non ero solo: ad una ventina di passi una figura era sorta dall’ombra del palazzo del mio vicino fermandosi in piedi, con le mani in tasca, a guardare i granelli argentei delle stelle. Qualcosa nei movimenti disinvolti e nella salda presa dei piedi sul prato mi fece capire che quello era il signor Gatsby, uscito a verificare quale fosse la porzione del cielo locale che gli spettava» (p. 76)
Dietro allo scintillio delle luci, al ritmo sfrenato del jazz e all’ebbrezza dorata dei ricevimenti si cela una figura solitaria e distinta, Jay Gatsby, che ha dedicato la sua vita alla realizzazione di un unico sogno: rincontrare Daisy, cugina di Nick sposata con il ricco e infedele Tom e indimenticabile amore degli anni che precedettero la Grande Guerra.
Attraverso lo sguardo di Nick, discreto ma estremamente umano, il lettore penetra l’animo di Gatsby: l’indole romantica, la passione esclusiva e totalizzante per Daisy, l’ambizione irrefrenabile e, d’altra parte, gli inconfessabili compromessi che ha dovuto accettare per realizzare il suo progetto.
Il sogno si realizza ma dura il tempo, caldo e folle, di un’estate. Tutto ciò che Gatsby ha accuratamente calcolato e predisposto crolla sotto il peso di una realtà meschina, che non corrisponde all’ideale.
Il grande Gatsby è un romanzo sulla disillusione, sull’impossibilità di far rivivere il passato, sulla incolmabile distanza tra realtà e desiderio. È un romanzo molto americano, nella definizione dei personaggi e nelle ambientazioni, ma anche estremamente europeo, nella profondità di uno sguardo che svela l’inconsistenza di una società che fa del denaro e del successo i suoi valori fondanti. Ma ciò che rende quest’opera un capolavoro è la raffinatezza di una scrittura adamantina che indaga il mondo e l’animo umano con un occhio malinconico, ma sempre pungente: la riflessione più profonda è infatti accostata ad arte a dialoghi futili, che ricreano in modo eccezionale l’atmosfera sfavillante e vuota dei salotti newyorkesi. Il lettore è spettatore di una vicenda che nel susseguirsi frenetico degli eventi si fa sempre più cupa, trascinata nel suo tragico destino da un meccanismo inarrestabile. E giunto all’ultima pagina, chi legge si rende conto, così come Nick, che la festa è finita: nessuna voce, nessuna risata, nessuna musica dal giardino di Gatsby. Non resta che partire per sempre, verso l’unica direzione possibile: il futuro.
«E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città, dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte» (pp. 260-261).
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