Titolo: La cripta dei cappuccini
Autore: Joseph Roth
Prima pubblicazione: 1938
Edizione usata per la recensione: La biblioteca di Repubblica, 2002 (trad. Laura Terreni)
Per lunga tradizione di origine risorgimentale, noi italiani siamo usi a considerare gli austriaci imperiali come un popolo di tirannici oppressori delle libertà nazionali. Risulta dunque interessante leggere un punto di vista del tutto diverso sull’Impero asburgico: quello di Joseph Roth che ne La cripta dei cappuccini narra con pervasiva melanconia la fine di quel mondo, il suo mondo, in un ritratto che non ne nasconde i vizi, ma nemmeno i pregi. Lo stesso titolo, del resto, è molto indicativo: la cripta dei cappuccini è il luogo nel quale sono sepolti gli imperatori asburgici ed i loro più stretti parenti. L’impero e la morte aleggiano su tutto il romanzo.
Sotto il profilo contenutistico, la storia è relativamente lineare: il giovane Francesco Trotta, barone di recente nobiltà, conduce una vita dissoluta alla vigilia della prima Guerra Mondiale, sinché gli eventi storici travolgono lui e la sua generazione, del tutto impreparata ad affrontare il peso della realtà. Così, al ritorno dalla prigionia, Trotta trova un contesto che non gli appartiene e nel quale si dibatte faticosamente, del tutto impreparato e inetto alla nuova realtà. I simboli materiali del disagio sono la moglie sposata in fretta prima di partire per il fronte, convinto di morire, e con la quale non ha un reale rapporto (è allontanata da lui sia da una passione per l’arte moderna, sia dall’amore ambiguo per una donna); un patrimonio quasi tutto investito in prestiti di guerra inesigibili; la madre, rappresentante del vecchio ordine, che diventa progressivamente invalida. Si trascinerà, così, fra poco raccomandabili praticoni, sino all’arrivo dei nazisti: con l’Anschluss si conclude il romanzo.
Non dispiaccia conoscere le linee essenziali del racconto e la sua conclusione: non è certo per le soprese di trama che si gode il racconto. Anzi, la scrittura è disseminata di una fitta rete di prolessi e di rimandi, che conferiscono agli eventi una sensazione di ineluttabilità greve e malinconica, come se davvero lo sfacelo di un mondo millenario fosse fatale, perché “sopra i bicchieri dai quali bevevamo, la morte invisibile incrociava già le mani ossute”, secondo una formula che torna, con poche varianti, più volte come un oscuro presagio sui vacui divertimenti della Belle Époque.
Fato ineluttabile, stile formulare con frasi ricorrenti: sono le caratteristiche di un’epica. Di un’epica, però, rovesciata: gli eroi non sono forti, ma inetti; non si costruisce un mondo, ma si assiste alla sua rovina, impotenti. È l’epica desolata della fine.
L’inoperosità della classe dirigente austriaca descritta nel romanzo, sin dal principio votata alla sconfitta, rappresenta la condanna dell’Impero, che invece trae linfa vitale dai vari popoli che lo compongono. Popoli diversi, ai quali pure la corona conferisce unità, “uno spirito potente che è in grado di accostare ciò che è distante, di rendere affine l’estraneo e di conciliare l’apparentemente diverso”. Apparentemente, appunto.
Il moloch che distruggeva le libertà nazionali di risorgimentale memoria (che anche nel romanzo pare a volte drenare al centro risorse in modo parassitario), il mostro composito di cento membra assume qui una dimensione ben diversa. Il suo nemico sono i nazionalismi: quando essi si scatenano, inizia la guerra, l’Impero si dissolve, giungono infine i nazisti per un nuovo Impero basato sulla germanità. Ma, già prima, sentiamo lo sgomento del caldarrostaio Branco che asserisce: “In vita mia non ho mai visto niente di simile. Ogni anno ho sempre potuto vendere dappertutto: in Boemia, in Moravia, in Slesia, in Galizia. […] Ora tutto è proibito. E dire che ho un passaporto. Con la fotografia.”. Nemmeno la fotografia, quasi una stregoneria di modernità per la mente contadina, può contrastare lo sfacelo.
E rimaniamo con un dubbio: l’antica entità statale, l’atavico impero che riuniva popoli diversi, anche con significative autonomie, in una unità sovranazionale, era davvero il passato da sconfiggere come ci è sempre stato presentato? Noi che ci sentiamo europei non possiamo reprimere un brivido quando leggiamo della sua dissoluzione, e ciò che è seguito.
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