Titolo: Il fu Mattia Pascal
Autore: Luigi Pirandello
Prima edizione: 1904
Edizione usata per la recensione: Einaudi, 2005
La passata estate ho avuto modo di parlare a lungo con un ragazzo immigrato clandestinamente, che dopo un travagliato viaggio attraverso vari Paesi era finalmente riuscito ad inserirsi, tramite una comunità, in Italia e stava affrontando, a diciott’anni, la terza media. Nonostante un italiano poco fluente e una conoscenza letteraria pressoché nulla, aveva scelto di portare all’esame un testo raffinato, letterariamente elevato ed amato dai dotti quale Il fu Mattia Pascal.
È la forza dei grandi libri saper unire l’apprezzamento di colti e meno colti; la forza delle opere che hanno attraversato i secoli, dall’Iliade cantata nei banchetti alla Divina Commedia citata dai fabbri fiorentini, ma spesso non altrettanto diffusa fra quelle nel Novecento; la forza degli scritti che sanno cogliere un tema urgente, immediato e svilupparlo in modo profondo.
Il fu Mattia Pascal affronta un tema cruciale nella vita di ciascuno di noi: l’identità. Per il mio interlocutore ex clandestino, narra di quanto sia difficile, per chi non ha una registrazione ufficiale, una personalità legale, compiere anche le più normali attività, per non parlare di quanto lo sia costruire una vita stabile, perfino per coloro che hanno ampie disponibilità di denaro: per questo si è riconosciuto nella vicenda.
La storia, nelle sue linee essenziali, è semplice, e non si rovina a nessuno la lettura rivelandola, giacché viene raccontata con un lungo flash back da Mattia stesso, e dunque gli esiti sono facilmente intuibili sin dal principio. Mattia Pascal, intrappolato in un matrimonio non pianificato, da una situazione economica disastrata dall’inettitudine sua e di sua madre, coglie l’occasione della sua presunta morte, dichiarata a causa del ritrovamento di un corpo durante una “fuga” a Montecarlo (nel cui Casinò aveva vinto un’ingente somma), per iniziare una nuova vita, prima itinerante e poi a Roma, sotto il falso nome di Adriano Meis. Dapprincipio si sente libero dai vincoli, dalle costrizioni, ma presto la sua esistenza diventa tormentata e impossibile: non riesce a lavorare per mancanza di documenti, né a risposarsi, e nemmeno a denunciare un furto. Inscena dunque un suicidio per tornare al paese da Mattia Pascal, ma qui la moglie ha un nuovo marito, e lui è costretto ad una vita ritirata, rintanato nella biblioteca nella quale ricopre un modesto incarico, dal quale ogni tanto trova svago nel portare fiori sulla propria tomba, nel cimitero locale.
Non è difficile riconoscere diversi luoghi tipici del romanzo di inizio Novecento: il protagonista è un inetto, incapace di lottare davvero per i propri obiettivi, irrealizzato e, secondo i valori della società, un perdente. Come in altri casi, proviene da una famiglia già agiata, ma in decadenza per l’indolenza di chi dovrebbe gestire il patrimonio, sicché in giovinezza non ha imparato ad affrontare con concretezza i problemi e, sopraggiunti il bisogno e la maturità insieme, riesce appena a sopravvivere. Sino a questo punto, potremmo quasi pensare ad una delle (successive) prime prove sveviane, Una vita o Senilità, anche per la squisita ricercatezza dell’analisi psicologica e il gioco di prospettiva dato dal narratore interno molto presente: i giudizi che proferisce sugli altri abitanti del natio paese di Miragno, nessuno dei quali merita un parere positivo, saranno fondati o avvelenati dall’invidia di chi si sente inadatto e ingabbiato? Certo, se avessimo il racconto scritto da “Blatta Malagna”, l’avido e disonesto amministratore, Mattia non ne uscirebbe bene!
La specificità di Pirandello si rivela nella natura di una vicenda eccezionale, ai limiti del verosimile dai forti risvolti. Dico “ai limiti” del verosimile perché Pirandello rivela nella Avvertenza conclusiva di aver preso spunto da un fatto reale letto su un giornale, ovviamente rielaborato in modo sostanziale, in quanto “le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere”. Pare un’arguzia, ma ci porta al centro della battaglia letteraria pirandelliana: così, con un tratto di penna, sono liquidate tutte le pretese della letteratura ottocentesca, di quel naturalismo che si piccava di essere quasi scientifico nella sua osservazione, che dipingeva i personaggi come risultato ineluttabile di origini e contesto in cui sono cresciuti. Ma via – ci dice Pirandello – la vita è assurda, non certo prevedibile e verosimile!
Se nella letteratura precedente, l’identità del personaggio è chiara e definita, in Pirandello (e poi nel Novecento) è proprio la sua ambiguità ad essere il cuore pulsante della narrazione. Chi è Mattia Pascal? È più vero Mattia o Adriano? Impossibile a dirsi. Il tema della maschera non è esplicitato, ma appare evidente sottotraccia: il protagonista si sente immensamente libero quando perde il suo nome, e quindi il suo ruolo, ma progressivamente scopre di non poterne fare a meno. Fuggito da un matrimonio, “suicida” la sua nuova identità perché non può stringerne un altro, perché, insomma, non può rientrare nei canoni della società che ha rifiutato.
La storia è divertente e surreale: prendendo a prestito il lessico di Pirandello stesso, possiamo “avvertire il contrario” ed appassionarci delle strampalate vicende e riflessioni di un uomo morto due volte e dai casi di una vita senza documenti; oppure, possiamo “sentire il contrario” e sorridere, consapevoli però che lo scacco e la beffa non riguardano solo l’inetto Mattia , ma tutto il genere umano ingabbiato in un sistema di ruoli e di maschere di cui tuttavia non è possibile fare a meno.
Il fu Mattia Pascal: la gabbia del non avere legami. Vero perché assurdo.