Grandi Riflessi: Joseph Roth – La leggenda del santo bevitore

Titolo: La leggenda del santo bevitore
Autore: Roth Joseph
Genere: Letteratura

L’agiografia, ossia la narrazione della vita dei Santi, segue sin dalle sue prime testimonianze, passando per i fasti della Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, regole precise: si raccontano, come è passato in detto, “vita, morte e miracoli”. La vita deve essere esemplare, e molto spesso inizia nel peccato dal quale l’individuo riesce a tirarsi fuori: pensiamo al caso forse più noto, quello di San Francesco, prima giovane gaudente, poi colto da una crisi mistica in seguito a un preciso evento (la guerra e la prigionia); ma vicende analoghe sono ricorrenti in tutti i “pesi massimi” della santità. La morte non può essere banale, ma deve essere testimonianza suprema (con martirio o meno) della nuova etica maturata. I miracoli avvengono di norma dopo il decesso (e, anzi, sono proprio loro a garantire la santità), ma alcuni riescono a anticiparli pure in vita.

Joseph Roth, in questo racconto lungo abitualmente pubblicato in edizione autonoma, rielabora il concetto di agiografia mantenendone gli stilemi, la meraviglia, ma impolverandolo con le scorie della greve realtà dei vinti: il suo “santo bevitore” non conosce il trionfo splendente dei suoi colleghi antichi, ma a stento sprazzi di vita dignitosa. Conduce una vita da clochard (e apprenderemo che lo è diventato in seguito a un delitto) macchiata dal vizio dell’alcolismo e senza rispetto di sé, ma un evento in qualche modo mistico (un prestito inatteso) lo indice a cambiare, o quanto meno a provarci (il denaro gli fornisce dei mezzi e l’impegno di restituzione gli fornisce uno scopo).

La morte, come per i Santi, appare come il momento più elevato della parabola della narrazione, quello in cui finalmente ottempera all’impegno preso e il cui rispetto, per vari motivi, aveva sempre procrastinato. Eppure, apparentemente è una morte ignobile, frutto degli stravizi che lo portano a collassare in un bar. Solo qui, però, trova la forza di una reazione decisiva, quasi chiamato da S. Teresa in persona.

Non mancano nemmeno i miracoli, benché più ricevuti che operati in favore dei bisognosi. Quelli che coinvolgono il nostro Andres non sono sovrannaturali, ma soltanto straordinari: un prestito inatteso senza poter dare garanzie, un lavoro seppur precario, trovare del denaro in un portafoglio che ha acquistato per vuoto. Forse, questi sono il massimo concesso da una civiltà scientifica e razionalista. Di per sé, sono fatti spiegabili razionalmente: è la frequenza che appare incredibile, al punto che Andreas, ci dice il narratore, si abitua così facilmente ad essi (e questa – commenta – è una caratteristica umana) da darli, in breve tempo, per scontanti, indispettendosi se non accadono. Non facciamo così noi stessi, vivendo senza gioia un benessere che parrebbe straordinario a tutti i nostri antenati? Così, se i Santi più rinomati hanno dovuto affrontare, nella loro agiografica via verso la beatitudine, fierissimi nemici esterni (persecuzioni, barbari pagani, despoti…), Andreas trova come unico vero ostacolo sulla strada del suo obiettivo, cioè la restituzione di duecento franchi alla statua della piccola S. Teresa, la sua stessa debolezza. Questo ce lo rende vicino e moderno: è il cruccio dell’uomo fra in Novecento e il Duemila.

Nonostante l’andamento delle vicende suoni, per la successione di eventi improbabili, nel complesso inverosimile, l’arte dell’autore sta nel coniugare, attraverso la narrazione essenziale, scarna, diretta di una realtà misera e degradata, un sapore leggendario ed uno fangosamente quotidiano. Le parole e le frasi sono quelle di una fiaba, la realtà narrata è quella dei clochard che popolano le strade più misere.
Senza dubbio, contribuì a tale risultato l’esperienza diretta di Roth, che trascorse gli ultimi anni della sua esistenza non sotto i ponti della Senna come il protagonista del racconto, ma pur sempre a Parigi (dove, avendo origini ebraiche, era dovuto migrare per fuggire alla tempesta nazista), in ristrettezze economiche fino a ritrovarsi in un ospizio per poveri, vittima della spirale dell’etilismo. Questo volumetto fu la sua ultima opera, pubblicata postuma, e in qualche modo trasfigura la sua parabola di vita. Non è un’autobiografia, ma trasuda il dolore dell’esperienza reale, dolorosa e vissuta.

Ecco quanto ci rimane di santità possibile: non più trionfare sul demonio, ma riuscire a dibattersi fra le proprie debolezze senza lasciarsi sopraffare.

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