Titolo: Il giardino dei Finzi-Contini
Autore: Giorgio Bassani
Anno: 1962
Edizione usata per la recensione: Mondadori, 2008
Giardino come luogo appartato, intimo, lontano dai rumori della città. Luogo di svago e di bellezza in cui tutti gli elementi tendono all’armonia. Il giardino è anche immagine, copia sensibile di un Eden da cui l’uomo è stato allontanato, nostalgico tentativo di riprodurre in terra ciò che è irrimediabilmente perduto. Il locus amoenus che esclude il mondo esterno, motivo di lunghissima tradizione letteraria, trova nuova seducente rappresentazione nel romanzo di Giorgio Bassani del 1962. Il giardino è infatti il luogo, armonico e isolato, in cui si svolge la vicenda narrata: non soltanto paesaggio sullo sfondo, ma elemento centrale della storia, pregno di simbolismi.
È il 1938, l’anno delle leggi razziali che determinano l’esclusione degli ebrei da circoli ricreativi, biblioteche, scuole pubbliche: per questo motivo Micòl e Alberto Finzi-Contini, giovani rampolli dell’alta borghesia ebraica di Ferrara, decidono di aprire le porte del proprio giardino, da sempre chiuso a visitatori esterni, ad un gruppo di coetanei della città per giocare a tennis. Ogni pomeriggio l’allegra brigata si riunisce dunque per disputare le partite, all’insegna della spensieratezza e del leggero divertimento. L’atmosfera luminosamente sospesa del giardino sembra distogliere da ciò che sta contemporaneamente avvenendo al di fuori: il progressivo incupirsi della situazione politica europea, l’inasprirsi dei provvedimenti antisemitici, l’inesorabile approssimarsi della guerra.
Nel tempo caldo e apparentemente immobile dell’autunno ferrarese nasce e si consuma l’amore tra Micòl, figura enigmatica ed evanescente, e il protagonista, voce narrante del racconto: un amore soltanto sperato che non avrà modo di far germogliare i suoi timidi semi. Con il sopraggiungere dell’inverno e la partenza di Micòl per Venezia, l’idillio si incrina, ma impercettibilmente: la promessa di un amore pieno si alimenta ancora di false speranze mentre in realtà, questa la verità amara che si schiuderà al protagonista solo mesi dopo, tutto è già perduto, irrecuperabile, irrevocabilmente legato al passato.
Il giardino dei Finzi-Contini è la storia di un amore e poi della rinuncia a quell’amore: parentesi delicata e struggente nella bufera della Storia. Se dunque la vicenda dei due giovani sembra far dimenticare la dolorosa materia storico-politica, d’altra parte è la prospettiva temporale assunta dal narratore che funge da luttuoso monito nei confronti del lettore: la sua è infatti una rievocazione compiuta a posteriori, quando ormai di quel passato non rimane più niente. Il lettore già sa che Micòl e la sua famiglia saranno deportati nei campi di concentramento tedeschi, che Alberto morirà ancora ragazzo per una grave malattia e che lo stesso protagonista dovrà scontare anni di carcere.
Il romanzo di Bassani è dunque un inno dolente al potere della memoria, unico saldo possesso di chi resta. Così, se tutto è perduto, travolto dal tempo e dalle incomprensioni, qualcosa di luminoso rimarrà per sempre nel profondo: “Un giorno però era accaduto qualcosa. Essendomi capitato di leggere in uno dei taccuini stendhaliani queste parole isolate: All lost, nothing lost, di colpo, come per miracolo mi ero sentito libero, guarito. Avevo preso una cartolina, ci avevo scritto sopra la riga di Stendhal, quindi l’avevo spedita a lei, Micòl, tale e quale, senza metterci niente nemmeno la firma, ne pensasse pure quello che volesse. Tutto perduto, niente perduto. Come era vero! mi dicevo. E respiravo” (pag. 186).
Il romanzo si chiude con un addio silenzioso a Micòl che corrisponde significativamente al commiato definitivo dal giardino: in una suggestiva scena notturna, il protagonista ripercorre i luoghi del suo amore, il «vert paradis des amours enfantines», per poi decidere di allontanarsene per sempre.
Fine dell’amore adolescenziale e ingresso nella vita vera, si direbbe. Ma l’uscita dal giardino edenico prelude ad un percorso doloroso negli inferi della Storia. È allora un romanzo di formazione sghembo questo di Bassani, delicatamente malinconico, in cui ciò che attende il protagonista è una maturità amara che con nostalgia si volge alla contemplazione del passato, del suo Eden perduto.