Titolo: La malora
Autore: Giuseppe Fenoglio
Prima pubblicazione: Einaudi, 1954
Edizione usata per la recensione: Einaudi, 1981
“Pioveva su tutte le langhe, lassú a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti”.
Sin dall’incipit, La malora trasuda il fascino rude dell’alta Langa nella quale è ambientata la vicenda. Il padre di Agostino, il protagonista-narratore, è morto e il pensiero si sposta subito sui marenghi, sul denaro che occorre alla sepoltura. L’aspetto pratico-economico assume immediatamente la sua sconcertante, e straniante, dimensione assoluta.
Dopo pochi minuti di lettura e d’immersione nel punto di vista del protagonista, i sentimenti paiono questioni che possono acquisire rilievo solo dopo aver mangiato oggi e aver acquisito la certezza di mangiare anche domani, altrimenti rimangono nascosti dietro il macigno del bisogno.
È per i denari che il nucleo familiare si spezza: Agostino viene mandato quale servitore dal mezzadro Tobia per sette marenghi l’anno (da versare al padre), il fratello Emilio in seminario con l’esplicita speranza di prendere un giorno la madre come perpetua e in remissione di alcuni debiti con una beghina di paese. Per tutti, per chi parte e per chi rimane, la vita è dura, è vita di stenti e patimenti.
Fino a non molti anni fa, si poteva leggere questo romanzo breve, uno dei più intensi del Dopoguerra, soprattutto come testimonianza di un tempo passato, benché recente, di un mondo contadino tramontato, un contraltare del profondo nord dei disgraziati pescatori del Verga, in una ideale Unità d’Italia della miseria dalla quale pareva impossibile riscattarsi. Non a caso, all’uscita del romanzo il curatore della prima edizione, Elio Vittorini, lo tacciò di vacuo neoverismo. La diffusione del benessere e della sensazione di un continuo miglioramento delle condizioni socioeconomiche sembrava relegare quella concezione al grado di documento storico.
Invece, estrapolate dal contesto langarolo e contadino, le vicende potrebbero essere adattate a fatti di cronaca della crisi: la rovina della famiglia inizia con il “tentare il colpo della censa”, cioè di avviare una piccola attività commerciale; Tobia, il tirannico mezzadro, non risparmia di sfruttare non solo il servo Agostino, ma anche se stesso, i figli e la moglie al punto da rendere quest’ultima invalida nel sogno – vano – di acquistare terre più fertili; non manca nemmeno il suicidio come via di fuga. Un suicidio che non ha certo i connotati romantici e solenni di un Ortis, ma che è solo sconfitta e squallore. Fenoglio non mette in contrapposizione servi e (piccoli) padroni, li unisce nella medesima miseria, nella medesima malora.
Come tutti i migliori classici, il romanzo ci parla di noi: parla di come la disperazione, la privazione o il desiderio di innalzarsi appena al di sopra della sopravvivenza tolgano spazio a tutto il resto, a tutto ciò che siamo abituati a considerare importante per il nostro vivere. È il brutale impero dell’economia.
La lingua che Fenoglio impiega è del tutto foggiata sull’argomento: asciutta, diretta, con parole pesanti, forte, quasi di violenza; creata dall’inesausto sperimentalismo stilistico dell’autore in modo molto vicino alla parlata locale, ne mantiene le strutture sintattiche e le espressioni tipiche, come il “solo più”. Ridotti al minimo gli aggettivi e gli avverbi, rimane una lingua concreta, densa di “cose”. I concetti astratti in un simile mondo non trovano spazio.
Eppure, sarebbe sbagliato affermare che, in questo contesto schiacciato, a livello lessicale e tematico, sul “bene”, sulla “roba” (termini ricorrenti), i sentimenti non siano presenti. Certo, non possono prescindere dalla concretezza, se anche quando vuole esprimere l’affetto per il sempre più malato fratello Emilio in seminario, Agostino dice che per andare da lui lascerebbe “un pranzo da sposa”. Anche il sogno d’amore con Fede è vissuto senza orpelli. Lei vorrebbe un uomo “che non sia zoppo, che non sia gobbo e non abbia i capelli rossi. E più che tutto, che lavori e che non mi picchi senza ragione” (frase peraltro assai eloquente circa la condizione femminile), ma è portata via, a occhi bassi, perché “si sposava nella roba”.
Ciò che non manca mai, ad Agostino, però, è la dignità: resiste alle tentazioni di fuga, che pure gli si presentano, anche dopo aver abbandonato ogni sogno di essere preso dai parenti; resiste alla delusione di non poter rimanere a casa dopo la morte del padre, in quanto il fratello maggiore Stefano gli lascia chiaramente intendere che non c’è posto per lui, perché buona parte delle terre sono già state vendute.
Agostino resiste con dignità, con la dignità del lavoro e dell’attaccamento alla terra e, alla fine, nel momento più buio, si aprirà uno spiraglio di vita non felice, ma quasi tale anche nella malora.
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