Estratto di “Shirley” di Charlotte Brontë

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Il 19 novembre Fazi Editore pubblicherà un grande romanzo: “Shirley” di Charlotte Brontë con la traduzione di Fedora Dei. Testo meno noto rispetto al celebre “Jane Eyre”, “Shirley” è il secondo romanzo dell’autrice e si inserisce all’interno del genere del romanzo sociale inglese di inizio Ottocento. Ricco di contenuti e di tematiche, questo libro offre uno spaccato di quella che era la situazione sociale dell’epoca, ponendo particolare attenzione ai problemi legati al mondo del lavoro, del matrimonio e della condizione femminile.

La strada dal rettorato a Hollow’s Mill era tutta in discesa, e Caroline la fece quasi di corsa. L’esercizio fisico, l’aria fresca e il pensiero di rivedere Robert, o di essere per lo meno nelle sue vicinanze, le sollevarono ben presto lo spirito depresso. Arrivando in vista della bianca villetta, con nelle orecchie i rumori della fabbrica e il mormorio del ruscello che correva nella valle, scorse subito Moore, fermo al cancello del giardino: indossava il solito camiciotto all’olandese, stretto alla cintura, e un leggero berretto in capo: guardava verso il sentiero, ma non in direzione di Caroline, ed ella si nascose dietro a un salice e stette a osservare Robert per qualche minuto.
“Non ha eguali!”, pensava. “È tanto bello quanto intelligente. E che sguardo penetrante! Che lineamenti decisi eppure gentili, delicati e severi… ma belli! Davvero ha un bel viso, mi piace… tutto il suo aspetto mi piace… lui mi piace davvero tanto! Più di qualsiasi altro… di quei noiosissimi curati ad esempio… Oh, mio bel Robert!”.
E si portò subito alla presenza del “bel Robert”. Questi dal canto suo, vedendola avrebbe voluto svanire davanti ai suoi occhi, come un fantasma. Non essendo un fantasma, ma un individuo in carne e ossa, dovette accettarla e salutarla. Fu un salutino rapido: da parente, da fratello, forse da vecchio amico, ma non da innamorato. L’indicibile incanto della sera precedente era svanito dai suoi modi. Non era più lo stesso uomo… o comunque, nel suo petto non batteva più lo stesso cuore.
Atroce delusione! Acuta sofferenza! Sul momento, nel suo slancio, la ragazza non volle credere al cambiamento, sebbene lo vedesse e lo sentisse. Le fu difficile ritirare la mano dalla sua finché egli non le ebbe concesso qualcosa che poteva anche sembrare una dolce, lieve pressione; difficile le fu ritirare lo sguardo dagli occhi di lui finché non vi ebbe letto qualcosa di più affettuoso del gelido saluto di poco prima.
L’uomo, che sia innamorato e venga in tal modo deluso, può pretendere spiegazioni; la donna deve solo tacere. Se così non facesse, ne risulterebbe vergogna e angoscia, un senso di intimo rimorso per aver tradito se stessa. La natura marchierebbe il suo comportamento come una ribellione contro l’istinto femminile e in seguito si vendicherebbe ripagandola con il fulmine del disprezzo di sé, che punge all’improvviso, in segreto.
Bisogna prender le cose come le trovi; non far domande, non esporti; è la scelta più saggia. Ti aspettavi del pane, hai avuto una pietra; su quella spezzati i denti, non urlare di dolore, se i nervi sono martirizzati. Il tuo stomaco spirituale – se ce l’hai – è robusto come quello di uno struzzo, e la pietà sarà digerita.
Hai teso la mano per avere un uovo, il fato vi ha posto dentro uno scorpione; non mostrarti costernata, chiudi saldamente le dita su quel dono e lascia pure che ti punga il palmo. Non far caso al dolore; con il tempo, dopo che la mano e tutto il braccio avranno sopportato i brividi della lunga tortura e il gonfiore, lo scorpione morirà stritolato. E avrai imparato a soffrire senza un singhiozzo. Per tutto il resto della vita – se sopravvivrai alla prova, perché si dice che certune ci muoiano – sarai più agguerrita, più saggia, meno sensibile. Ma da questa speranza non potrai al momento trarre coraggio, perché non ne sarai consapevole. In questi casi, come abbiamo detto, la forza di carattere è ottima amica: sigilla le labbra, interdice lo sfogo, impone una placida simulazione che dapprima, spesso, si risolve in un comportamento gaio e disinvolto… poi vengono il dolore e il pallore che con il tempo si calmano e poi dileguano, lasciando dietro di sé un opportuno stoicismo amarognolo, ma non perciò meno fortificante.
Amarognolo! Non è esatto. Amaro… perché l’amarezza rinforza, è un grande tonico. Dopo l’acuta sofferenza non vi sia mai una mite e gentile energia! Crederlo è illusorio. Dopo la tortura possono esserci soltanto spossatezza e apatia: un’energia residua potrebbe essere invece assai pericolosa, anzi mortale se confrontata con l’ingiustizia subita.
Chi non conosce la ballata della povera Mary Lee? È un’antica ballata scozzese, composta non so da quale mano e in non so quale generazione. Mary Lee è stata trattata male, forse perché le si fa intendere come verità ciò che invece è falso; non si lamenta, ma è sola, nella tormenta di neve; la ballata racconta i pensieri di Mary Lee. Non sono i pensieri di un’eroina, ma quelli, profondi e rancorosi, di una ragazza di paese. L’angoscia l’ha cacciata di casa, dal caldo cantuccio accanto al focolare, verso le gelide colline ammantate in un bianco sudario. Rannicchiata sotto la gelida tormenta, evoca immagini d’orrore… “il rospo dalla pancia gialla”, “l’aspide irsuta”, “i cani randagi che ululano alla luna” e “l’amara bacca del rovo”. Tutto ciò le ripugna, ma “più ancora Robin-a-Ree” l’uomo che l’ha offesa.

Un tempo, presso il chiaro ruscello, vivevo serena,
E il mondo con amore si chinava su di me.
Ora, seduta nella gelida tormenta, gemo con pena
E maledico il malvagio Robin-a-Ree!
Tu mordi e pungi, acre vento,
e sospiri tra gli alberi spogli.
Copri di neve il mio tormento
e per sempre da me il sole distogli!
Corona di neve, non scioglierti mai,
Sii buona nel seppellire me.
Dal disprezzo e dalla beffa mi nasconderai
di gaglioffi come Robin-a-Ree!

Ma quanto detto in queste due ultime pagine non riguarda i sentimenti di Caroline Helstone o lo stato delle cose tra lei e Robert Moore. Robert non le aveva fatto alcun torto, non le aveva mentito: se c’era qualcuno da biasimare, era Caroline. L’amarezza che sgorgava dal suo animo sarebbe caduta su di lei. Lo aveva amato senza che lui glielo avesse chiesto: una cosa naturale, talvolta inevitabile, ma gravida di infelicità. Robert, infatti, era talvolta sembrato innamorato di Caroline… ma perché? Perché lei gli si era resa così piacevole che Robert, nonostante i suoi sforzi, non aveva potuto fare a meno di lasciar trapelare quel sentimento che la sua volontà non approvava affatto. Egli aveva, perciò, deciso di evitare una stretta vicinanza con la ragazza, per non trovarsi inestricabilmente impigliato nell’amore e quindi tratto, contro ragione, a un matrimonio che giudicava incauto. E Caroline cosa doveva fare? Dare libero sfogo ai propri sentimenti o soffocarli? Aprirsi a lui o rinchiudersi in se stessa? Per debolezza… avrebbe scelto il primo espediente e così avrebbe perduto la stima di Robert, guadagnandone invece l’avversione; per buon senso, si sarebbe fatta sostenitrice di se stessa, reprimendo e dominando il disordinato reame delle proprie emozioni. E così avrebbe imparato a guardare con fermezza la vita, ad apprenderne le dure verità, a studiarne attentamente e coscienziosamente gli spinosi problemi.

Questo riportato è un breve estratto di “Shirley” di Charlotte Brontë, Fazi Editore.

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