Il 2 gennaio sarà in libreria “Vetro”, un romanzo storico molto intrigante ambientato a Venezia, una vera e propria scommessa editoriale sia per la Longanesi, sia per l’autore. Quest’ultimo è Giuseppe Furno, nato a Roma nel 1953, è un affermato sceneggiatore per il cinema e la televisione, per cui ha scritto molte serie trasmesse dalla RAI tra cui “Don Matteo” e “Il commissario Manara”. L’abbiamo incontrato qualche giorno fa per chiedergli di più sul suo lavoro, ecco cosa ci ha raccontato.
Lei è uno sceneggiatore, quali tratti distintivi possiedono la narrazione per un libro, e quella per un soggetto televisivo cinematografico?
Vediamo i pro e i contro; l’idea di partenza è comune a tutte e due le strutture narrative, quindi narrativa e sceneggiatura. Una sceneggiatura è una sorta di libretto di istruzioni per poi realizzare un qualcosa di diverso che può essere un film, una fiction televisiva o una trasmissione radiofonica. L’autore della sceneggiatura deve esser pronto ad accettare la trasformazione del testo scritto, in parola o in visione. Il libro è in presa diretta, lo scrivi e tu arrivi, non c’è una mediazione, sei in presa diretta. Già scrivendolo sai che non sarà un libretto di istruzioni, né un trattamento, né un soggetto, sarà proprio il testo. Nel mio romanzo ho costruito una scaletta semplice, era fatta di un inizio, di una svolta centrale e di un finale. All’interno di questi pilastri della storia, piano piano sono nate alcune scene, che poi sono i capitoli del libro.
Quando un autore di sceneggiatura e narrativa si cimenta nello scrivere l’una o l’altra cosa, a che cosa deve fare attenzione?
Nella sceneggiatura si deve essere molto rispettosi di quel che ha stabilito il regista, normalmente si scrive su commissione, se dovessi scrivere un episodio di Don Matteo, ci sono delle rigide note di elaborazione che vanno rispettate. C’è proprio una griglia che va rispettata; all’interno di questa griglia si può lasciare la fantasia ma un episodio di Don Matteo dura cinquanta minuti e i tempi devono essere quelli. Tu devi rispettare all’interno della scrittura un tempo che trasformato in visione, in scene, sia proprio quello stabilito. Per cui la sceneggiatura lunga viene tagliata. Sul romanzo c’è si un accordo di base con l’editore ma si ha più libertà, io sono addirittura arrivato ad un punto in cui i personaggi parlavano, mi parlavano, come se il protagonista avesse deciso di dettarmi le regole. C’è una certa difficoltà ad uscire da un romanzo ed entrare dentro una storia cinematografica-televisiva, perché son proprio due metodi di scrittura diversi, anche se partono lo stesso da un’idea.
Come mai ha scelto il romanzo storico e come mai lo ha ambientato proprio a Venezia?
Io penso che sia stata un po’ una sfida, Venezia è talmente imponente, importante, impegnativa, un universo, che addirittura è impalpabile, liquida, diventa com’è, acqua. La stessa storia che io scritto nasce sull’acqua, che poi si materializza nel libro. Venezia, in quegli anni che io descrivo, è una città ricchissima, che comincia la sua parabola discendente. Ora vien facile il paragone con la civiltà occidentale e con il mondo contemporaneo, ma è proprio quel periodo storico che mi ha permesso di raccontare come una città che appare invincibile sia costretta a ridimensionarsi. La Venezia di oggi è una sorta di grande fiera, che non ti permette di raccontare questo genere di storia, è una città ancora viva e splendida che è diventata un po’ un parco giochi; io volevo fare entrare il lettore in quella storia li e farlo scendere fino alla parola fine senza distrazioni; spero di esserci riuscito.
In che modo si è documentato per scrivere questo romanzo?
Ho avuto la fortuna di conoscere molto attraverso dei soggiorni, ma stando a Venezia non si riesce a scrivere, si riesce a prendere appunti, ad imparare ad affinare i sensi, ma non si riesce a scrivere, essendo un vortice di sollecitazioni che non si riesce a star seduti a scrivere. Per cui ho camminato e avevo come compagno di passeggiate, un postino in pensione, il quale, essendo un portalettere professionista, conosce tutto. Ho imparato a conoscere quella Serenissima ignota, quella inimmaginata e lo si può fare solo vivendola.
Qual è il rapporto tra realtà storica e fantasia nel suo romanzo? Se dovesse indicare una percentuale?
Direi un 70% realtà storica e un 30% fantasia, fantasia innescata, plasmata all’interno della realtà.
Che quadro emerge dalla Venezia che lei affronta? C’è qualcosa che non sappiamo e che lei rivela nel suo libro?
Ci sono le contraddizioni della Venezia dell’epoca, era una terra libera; contemporanemante era anche una terra che per sopravvivere, aveva bisogno del mare, ne era schiava. Venezia, in quel periodo, fa a meno di molte libertà, come la stampa, i libri, le grandi stamperie sono veneziane e Lutero è stampato a Venezia; i grandi eretici sono stampati a Venezia e da qui i libri raggiungono a raggiera il mondo intero dell’epoca. Questo al Papa non andava bene e, siccome egli giocava un ruolo importantissimo in quegli anni, il governo veneziano, pur di far contento il Pontefice, comincia a bruciare i libri. I roghi erano pubblici, si bruciavano i libri in piazza san Marco e al Ponte di Rialto. Comincia anche la caccia agli ebrei, che tra l’altro nell’economia veneziana sono stati figure importantissime: erano i banchieri dell’epoca. Per cui p dimostrato che anche lì, in nome della Santa Alleanza si è persa parecchia libertà… questo mi fa pensare un pochino a quello che è accaduto dopo l’undici settembre come l’occidente si è confrontato col problema del terrorismo. Credo che ci siano molti punti di contatto. La storia si ripete, con costumi diversi, ma l’anima è quella.
Il titolo è una sua scelta? Che cosa si propone di evocare con il vetro e in che modo il titolo ci riporta alla storia raccontata?
Dal punto di vista formale il vetro è qualche cosa che è entrato nel nostro quotidiano, gli occhiali sono di vetro, le finestre che ci proteggono sono di vetro; il vetro per me è trasparenza, eternità, ma anche fragilità; forse il vetro è il materiale che somiglia di più all’animo umano; l’animo dovrebbe essere eterno, ma può essere anche molto fragile.
Con questo suo lavoro quali emozioni si è proposto di regalare?
Di montare un grande autobus, un treno o un aeroplano che viaggi a bassa quota, e guardare, emozionare, commuovere, muovere dei sentimenti e magari far venire la voglia di vivere Venezia anche in maniera diversa. Spero che questo libro dia una visione un po meno da Disneyland di Venezia, sottolineando che quella è una città vera, con delle anime che soffrivano, pregavano, speravano come noi.
Ha mai pensato ad un’altra cornice per la sua storia?
No, proprio no. Ad esempio Firenze, non perché non valga, dato che i genitori del rinascimento sono Firenze e Roma, ma io Venezia ce l’ho in testa da tanto tempo, è una città così liquida e possente, allo stesso tempo, che come un gatto che gira attorno alla pappa, io ci ho girato attorno quindici anni, poi ho conosciuto un maestro vetraio, che mi ha raccontato cose sul vetro, e ci ho messo un altro piede dentro. Alla fine, tirarmi fuori non era più possibile, son stato risucchiato da quel mostro che è questa straordinaria cornice.