Titolo: Cantona. Come è diventato leggenda
Autore: Daniele Manusia
Editore: Add
Genere: saggio
Anno di pubblicazione: 2013
Pagine: 192
Prezzo: 14 euro.
Per quelli della mia generazione Eric Cantona è stato un vero idolo di gioventù: si favoleggiava dei suoi exploits in Premier League, lo ammiravamo in Champions, ce lo contendevamo nei primi rudimentali videogames e, quando giocavamo a pallone in cortile con gli amici, ci alzavamo il colletto dicendo “orvuà”, come in una famosa pubblicità. Oggi the King è un mito condiviso e forse un rimpianto di molti, come quei grandi scrittori che vivono un’esistenza miserabile per poi essere riscoperti e incensati postumi.
Il calciatore Cantona, infatti, non esiste più. Oggi Eric è qualcosa di più: è un intellettuale a tutto tondo, che come un buon vino d’annata migliora invecchiando. Ha vissuto nell’Olimpo del calcio da “marginale”, da outcast, consapevole di non appartenere a quel mondo e costantemente alla ricerca di modi per “uscire dalla fila indiana”, come scrisse di lui una volta France Football. È stato giudicato “il velo di latte sulla tazza di Earl Grey del calcio inglese” (eletto miglior giocatore dei primi dieci anni della Premier League) e contemporaneamente ha più volte fallito in Francia e in nazionale, realizzando un percorso fatto di dicotomie irrisolvibili.
Leggendo Cantona. Come è diventato leggenda, opera prima di Daniele Manusia pubblicata da una casa editrice di ottime prospettive come la torinese ADD, ho potuto riportare a galla passioni e contraddizioni che difficilmente il calcio degli anni duemila, il calcio mediatico e spettacolare delle pay-tv, riesce a suscitare.
Nato da padre sardo e madre catalana e cresciuto nei sobborghi di Marsiglia, Cantona è il figlio legittimo di una tradizione di ribelli: giocatori come il brasiliano Socrates, il cileno Caszely e l’algerino Mekloufi hanno trovato nel football un palcoscenico temporaneo che, in perfetto accordo con le loro personalità originali e controcorrente, permetteva loro di “mostrare la schiena” alla folla (istituzioni, giornalisti, tifosi). Sono sempre stato convinto – e questo bel saggio conferma l’assunto – che Eric Cantona non volesse realmente fare il calciatore: l’arroganza e l’atteggiamento di superiorità così spesso imputatigli da tutti rappresentavano in verità un pesante senso di inferiorità che pativa nei confronti dell’establishment francese, dei cosiddetti “intellettuali” e della cultura “standard”. Dipingere e scrivere poesie, amare l’arte e recitare, sono stati modi per colmare il gap; chi lo ha visto in “Looking for Eric”, di Ken Loach, ha una vaga idea di quello che sto dicendo.
Il principale pregio del libro di Manusia è quello di far parlare Eric Cantona, uno che ha sempre avuto e che continua ad avere moltissime cose da dire. Con un po’ di pazzia, certo, perché “bisogna avere la forza di essere pazzi […] per assumersi la responsabilità della propria originalità”. Manusia usa tutta la letteratura a disposizione: precedenti biografie di Cantona, sue interviste e suoi spot pubblicitari, documentari che lo ritraggono e film di cui è stato protagonista. Ne risulta un ritratto completo e circostanziato della leggenda di Eric the King, che rivive nei suoi atteggiamenti da Jeckyll e Hyde, due facce della stessa pregiatissima moneta.
Come nel romanzo di Stevenson, c’è una parte di Cantona in ognuno di noi: quella parte istintiva che non pensa prima di agire perché “sai che noia!”, quella parte che compie delle sciocchezze e chiede scusa ma non si pente, per coerenza. I “brutti gesti” descritti da Manusia fanno parte della pazzia del personaggio, pazzia e contraddizioni: “Posso essere considerato matto solo nel contesto della società contemporanea. In una società ideale, sarei normale” e “Non posso avere la passione che ho, una specie di fuoco che chiede di uscire, senza che questo fuoco a volte faccia danni. E danneggi me stesso. Sono consapevole di farmi del male e di farne agli altri. Sono consapevole di deludere quelli che non capiscono che non posso essere quello che sono senza questo lato della medaglia”.
Oggi Cantona è altro da sé, non più the King, non più “au revoir” e tutte quelle cose che ci hanno riempito gli occhi quando si giocava kick and rush, quando l’erba di Old Trafford non era così verde e lasciava ancora percepire il peso del fango. Di quegli anni ci resterà solo un buon sapore in bocca e una strana sensazione di vuoto e interrogativi. Pensando alla propria fine, Eric Cantona ha infatti dichiarato in un’intervista: “Non voglio nessun epitaffio sulla mia tomba, ma solo una pietra bianca. Voglio lasciare la sensazione di un grande mistero”.