Big Ray – Michael Kimball

Titolo: Big Ray
Autore: Michael Kimball
Data di pubbl.: 2019
Casa Editrice: Pidgin Edizioni
Genere: letteratura americana
Traduttore: Stefano Pirone
Pagine: 200
Prezzo: € 15,00

Secondo uno studio del 2017 del National Center for Health Statistics, agenzia federale americana, il 39,8% degli adulti e il 20,6% degli adolescenti statunitensi sono obesi. Tra il 2000 e il 2016, inoltre, il tasso di obesità degli adulti con un’età superiore ai 20 anni è aumentato di quasi dieci punti percentuali. L’obesità è, a tutti gli effetti, una piaga sociale. Dietro l’armatura dei numeri c’è sempre l’individuo. E l’individuo può essere un angelo o un mostro.

Michael Kimball, scrittore originario di Lansing, Michigan, in Big Ray (Pidgin Edizioni) affronta il trauma della perdita, del lutto, della riconciliazione impossibile. Un padre rabbioso, violento, cattivo muore all’improvviso. Un padre oscenamente obeso. Big Ray, il grande e grosso Ray, appunto, deceduto il 28 gennaio 2005 per cause sconosciute o forse fin troppo ovvie. Da “dad” (papà) a “dead” (morto), ironizza l’autore, il passo è breve.

Non so se conta come una forma di suicidio, mangiare fino a morire.

Big Ray è la ricostruzione di una vita ingombrante in cinquecento brevi paragrafi staccati, ma non separati l’uno dall’altro. Big Ray è una ricognizione del tempo vissuto e perduto, un giallo psicologico perturbante, un diario personale che decostruisce gli anni per decifrare il presente. Big Ray è l’attraversamento di una linea d’ombra, un’indagine minuziosa sulla genesi di una patologia, una sollecitazione delle corde della memoria e un tentativo di venire a patti con la sofferenza.

Quando mio padre nacque, pesava tre chili. Quando entrò nei marines, pesava settantatré chili. Non molto prima che morisse, mi disse di pesare oltre duecentotrentachili. Nel corso della sua vita, mio padre mise su almeno duecentoventisette chili. Nel corso della mia vita, mio padre triplicò le proprie dimensioni.

Big Ray è un mosaico di emozioni miniaturizzate, un monologo fratturato e dolente. Big Ray non è un lamento sguaiato, ma una presa di coscienza.

È importante comprendere come mio padre apparisse per comprendere come mio padre fosse.

Il narratore riporta, in prima persona, le sue riflessioni dense di aneddoti e di particolari riesumati dalla polvere. Ogni reminiscenza è un frammento aguzzo. Verso il padre non c’è solo biasimo. L’urlo si piega a confessione. L’odio attecchisce nei recessi dell’animo e sboccia su una distesa di pensieri articolati.

L’aggressività del padre è minaccia esplosiva. La prossimità fisica è già, in potenza, punizione.

C’era una cosa che mio padre faceva quando ci trovavamo in pubblico e non voleva farsi vedere che mi sgridava o picchiava. Mi avvolgeva col braccio e appoggiava la mano sulla mia spalla in un modo che doveva sembrare affettuoso per chiunque ci vedesse. Poi mi stringeva qualche muscolo della spalla così forte da farmi impietrire. Il gesto doveva farlo sembrare un bravo padre, ma io non aero in grado di muovermi o parlare o persino gridare per il dolore.

L’intera vita del padre è setacciata. Il matrimonio dei genitori attira domande. Com’è stato possibile, per la madre, sposare un uomo del genere? Oppure, da giovane, Big Ray era un uomo diverso? Quando avvenne la mutazione? Perché ‘Ray’ si è trasformato in ‘Big Ray’?

Una volta, dopo che i miei genitori litigarono su qualcosa che non ricordo, chiesi a mia madre cosa le piacesse di mio padre e lei sorrise. Detestai che sembrasse una ragazzina adolescente quando mi raccontò di come i capelli di mio padre fossero ingellati all’indietro e di quanto fosse carino lo spazio tra i suoi incisivi quando sorrideva. Detestai che le piacessero le sue braccia quanto teneva le maniche corte della sua T-shirt bianca arrotolate all’insù. Detestai che quelle cose furono ciò che mi disse.

Militare mai andato in guerra, poi tecnico di laboratorio, quindi operaio alla Diamond Reo, infine ispettore di sicurezza. Quello di Big Ray è un tipico pellegrinaggio americano, di lavoro in lavoro, di Stato in Stato, a cavallo di un matrimonio fallito. Michigan, California, ancora Michigan, tra i tavoli verdi di Las Vegas, di nuovo Michigan, stavolta senza tetto sulla testa né un dollaro in tasca. Ultimo rifugio, una casetta. Le stanze, anche dopo la dipartita, risultano a lungo impregnate dei suoi odori, dei suoi umori.

In Big Ray le foto sono ovunque, suggelli di eventi felici, di eventi stupidi. Gli scatti immortalano attimi sbiaditi, circonfusi da un’aura di granulosa modestia. Le immagini sono anodine, distanti, misteriose, occupate da un padre-macchia. Ray il Grosso è un Golem flaccido e granitico, un Titano inopportuno. A volte, il padre non sembra il padre, bensì un estraneo. Forse, l’estraneo di tutti i giorni.

C’è una foto di me che apro i regali nella mattina di Natale del 1970. Sorrido e reggo in alto un paio di stivali neri da cowboy. Sono così contento che porgo gli stivali verso la macchina fotografica. Mio padre si trova dietro di me nella foto, seduto sulla destra. Mi fissa con uno sguardo vacuo sul volto. O è molto stanco o per niente interessato.

Big Ray aveva una figlia.

Non so se mia sorella ricorda ciò che io ricordo. Lui ci tormentava in diversi modi.

I sentimenti del narratore/voce guida sono ambivalenti e complessi. Accanto alla lucida riprovazione, non manca, nelle parole, una forma di asciutta, riluttante pietà. Cercare la verità nascosta nell’esistenza del padre significa cercare la ragione del proprio essere, qui e ora.

Quando ci penso su, mi rendo conto di aver imparato come arrabbiarmi da mio padre. Questa è un’altra cosa di lui che non mi piace.

Big Ray è un catalogo, un florilegio fenomenologico dell’obesità grave. La mole corporea del padre risulta, all’atto pratico, nella quotidianità spicciola, una massa non controllabile che impatta con durezza ed evidenza sugli oggetti. La mobilia rotta è una traccia indelebile della presenza di un uomo grasso, troppo grasso, super-grasso. Il corpo deborda, cola verso il basso. Il peso sfonda i divani, spezza in due i letti, deforma tutto. L’obesità è un dato ineliminabile nella percezione dello spazio abitato. Anche non volendo, lo spazio degli altri, per gli altri, a (s)favore degli altri, rimpicciolisce. Nel cono d’ombra di una persona obesa può mancare l’aria.

Inoltre, le braccia di qualsiasi persona obesa sembrano troppo corte. A volte, osservavo mio padre che allungava una mano per raggiungere oggetti per poi apparire un po’ perplesso quando non ci arrivava. Gli dovevano sembrare illusioni ottiche, quegli oggetti che si allontanavano da lui.

Nei confronti di Big Ray, si aggiunge il ribrezzo epidermico, la repellenza morale.

Uno dei ricordi più disgustosi che ho di mio padre è lui che faceva colazione. Stava in piedi sporgendosi sopra una padella indossando nient’altro che gli slip rossi, stretti ed elastici. La sua biancheria era sempre troppo stretta per lui, quindi lo spacco del suo culo sporgeva al di sopra dell’elastico e la sua pancia pendeva sul davanti. Il grasso saltava e schizzava dalla padella. Si infilava una mano nelle mutande e si grattava in un modo che non poteva essere ignorato mentre lavorava di spatola con l’altra mano. Gli piacevano le uova al tegamino oleose. Friggeva il bacon finché non si bruciava.

La morte di Big Ray rappresenta la soglia della consapevolezza. La casa in Michigan, da svuotare, è il crocevia tra il prima e il dopo. Solo al termine del diario giungiamo, attoniti, nel cuore del recinto sacro e inviolabile, dove il ricordo diviene attestazione dell’orrore domestico celato negli anni.

C’è una cosa che non sono riuscito a dire. Per buona parte della mia vita ho tentato di dimenticarmene e avevo paura di scriverla, ma devo includerla qui altrimenti tutto ciò non può considerarsi completo.

Ci meritiamo la verità o la menzogna? Preferiamo la sincerità o l’impostura?

Mio padre ha sempre voluto che scrivessi di lui e del suo lato della famiglia. Comprò il quaderno blu con l’idea di appuntare le storie che ricordava e di raccontarmele quando parlavamo al telefono. Mio padre potrebbe raccontare una versione diversa di questa storia.

Dopo la morte di mio padre, dopo la morte di mio padre, dopo la morte di mio padre… a cerimonia conclusa, le ceneri ritornano nel loro luogo naturale, la moquette di un casinò. E infine, ciò che resta, vola in cielo, a sfidare l’invincibile gravità.

Un tempo, ero un bambino con un padre.

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Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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