Auschwitz. Ero il numero 220543 – Denis Avey con Rob Broomby

Titolo: Auschwitz. Ero il numero 220543
Autore: Avey Denis
Data di pubbl.: 2011
Casa Editrice: Newton Compton edizioni
Genere: Autobiografia
Traduttore: Elena Cantoni
Pagine: 326
Prezzo: 9.90

Questo non è un libro sull’olocausto. Non ruota attorno ai dettagli  raccapriccianti delle torture a cui erano sottoposti gli ebrei nel campo di concentramento di Auschwitz. E’ il racconto vero di un uomo che ha vissuto sulla propria pelle e nella propria carne le atrocità della Guerra, qualunque guerra. E’ il frutto della rabbia di un soldato che ha visto i propri compagni morirgli addosso, ha toccato con mano la morte che l’Uomo stesso si è sforzato di rendere una scienza perfetta.

Denis Avey è un uomo di 93 anni che dopo oltre sessanta anni dalla fine del conflitto ha deciso di tramutare la propria rabbia in testimonianza, perché la maggior parte di coloro che vissero quell’orrore non ci sono più e il ricordo di quegli eventi è affidato proprio ai libri ed alla capacità’ della società di educare le nuove generazioni, fornendo loro la conoscenza degli accadimenti che portarono a quel “sonno della ragione” che ha creato il mostro della guerra e dell’olocausto.

Il racconto parte da molto lontano, inizia dal momento in cui l’autore decide di arruolarsi nell’esercito inglese nel 1940. Viene inviato in Africa a dove sperimenta la forza ostile e il cinismo del deserto: tra fame, polvere, diarrea, malaria, graffi che diventano ferite infette combatte contro gli italiani in Egitto e Libia. E’ difficile sentirsi raccontare la minuziosità e l’esultanza con cui vengono descritte operazioni di guerra atte a colpire, uccidere e distruggere l’armata italiana: i nostri connazionali, forse i nostri nonni erano nella colonna di carri contro cui si scaglia l’artiglieria inglese o nei depositi  in cui si Avey colloca l’esplosivo che distruggerà il campo italiano.

Dopo mille vicissitudini il protagonista viene catturato e diventa il numero 220543 del campo di lavoro per prigionieri di guerra vicino al campo di Auschwitz, dove divide le fatiche e gli stenti con gli “uomini ombra”: prigionieri ebrei uccisi di fatica, fame e percosse nel lager simbolo dell’olocausto.

La parola Auschwitz compare per la prima volta nel libro a pagina 131, ma da questo punto tutto cambia: l’autore vede e prova cose che come dice lui stesso nel libro “ti entrano nelle ossa e non escono più”.

“Dovunque guardassi, vedevo muoversi lentamente strane figure: centinaia, no, migliaia. Indossavano tutti camicie e pantaloni logori, a righe, più simile a pigiami che ad abiti da lavoro. I loro volti erano terrei, le teste rozzamente rasate, appena coperte da minuscoli copricapi. Si aggiravano come ombre vaghe e indistinte, parevano destinate a dissolversi nel nulla da un momento all’altro. Non riuscivo a capire chi, o cosa, fossero.” (pagina 138)

Avey è tormentato dal bisogno di sapere di più. Vuole vedere con i propri occhi se i racconti bisbigliati dai prigionieri, se il fumo disgustosamente dolciastro che esce dai camini corrispondono ad una realtà che la mente si rifiuta di accettare. Organizza uno scambio folle con uno di loro: per due volte scambia la propria lacera uniforme con il pigiama a righe di un prigioniero. “Davanti alle atrocità bisogna reagire , perché anche l’indifferenza uccide”, così l’autore ha giustificato il suo gesto. E’ per non morire di indifferenza che compie questa impresa folle. Tra i gemiti e le urla di disperazione Avey sperimenta la disperazione di quel luogo : “quanto che accadeva là dentro era la cosa peggiore che si può fare ad un uomo. Privarlo di tutto – i suoi averi, il suo orgoglio, la sua autostima- e poi ucciderlo. Era una lenta agonia.”

Tornato in patria l’autore vorrebbe far conoscere a tutti gli orrori di cui è stato testimone, ma nessuno voleva ascoltare: del conflitto si volevano ricordare gli atti di eroismo, non le atrocità. Cala una coltre di silenzio sulla sua vita prima del ritorno in patria, ma per quanto divorasse tutto quanto la vita poteva offrirgli – gare automobilistiche, cavalli, immersioni…- per anni è tornato ogni notte ad Auschwitz, con i suoi incubi. Solo oggi ha trovato un po’ di pace raccontando nelle scuole la sua esperienza, ammonendo i giovani di come affinché il male trionfi, basta che i giusti non facciano nulla.

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