La raffinata scrittrice Yasmine Ghata è figlia della poetessa di origine libanese Vénus Khoury Ghata. Nel suo Concerto per mio padre (Del Vecchio Editore), romanzo breve ma intenso, indaga il tema della trasmissione artistica di generazione in generazione. Con delicatezza e grazia, la scrittrice ci racconta una storia lontana, incorniciandola con arabeschi che si intrecciano alle note di un târ.
Da dove nasce l’idea del romanzo?
Concerto per mio padre è un romanzo che solleva la questione della trasmissione di padre in figlio. Avevo l’intenzione di mettere in discussione le conseguenze di un’eredità, un dono, un lascito. Eredità: dono o fardello? Il talento può essere trasmesso? Questi problemi mi hanno assalito al momento di scrivere questo libro perché io stessa ho provato a giustificare la mia opera in relazione alla vocazione alla scrittura che ho ereditato da mia madre. Accade spesso che adottiamo la professione dei nostri genitori: questo mi sembrava una fatalità, come se il nostro libero arbitrio non avesse intenzione di fare altro. Il mimetismo rispetto ai nostri antenati può renderci prigionieri di un sistema dal quale non ci si libererà facilmente. Bisogna attendere un ricambio generazionale per violare e rompere la continuità. Questo libro mi ha aiutato in qualche modo a rispondere alla seguente domanda: “La scrittura mi è stata davvero destinata?”
Il romanzo ruota intorno alla musica incantatrice del târ. Signora Ghata, che rapporto ha con la musica?
Amo la musica, soprattutto la musica tradizionale. In questo libro mi sono avvicinata ad essa come se fosse una sorta di scrittura ariosa, armonica. Mi è piaciuto sfruttare il carattere mistico della musica orientale che sembra tirarci fuori della nostra condizione umana per avvicinarci di più al territorio divino. Nella musica di Concerto per mio padre ci sono note segrete, c’è un enigma che deve essere svelato.
Moshem e Hossein raggiungono il divino attraverso la musica. Anche la scrittura può avere questo potere?
Sì, senza dubbio. La scrittura, per come la vedo io, è terapeutica. E’ l’espressione concreta dei nostri meandri interiori. La scrittura è un lavoro sull’inconscio, su questo fiume che scorre continuamente. Le parole sono come le onde che riusciamo a deviare quando siamo in barca.
Per i personaggi della storia, la musica è un dono. Tuttavia, sapere suonare il târ comporta anche un impegno verso gli altri, una missione nei confronti del proprio popolo. Anche lo scrittore ha un compito sociale?
Ogni artista ha un ruolo sociale nella misura in cui ogni atto creativo è l’eco della nostra condizione umana. Nulla è più legittimo per me che la sensibilità umana. Gli scrittori osservano e reagiscono all’assurdità della nostra vita. Ho sempre creduto che la finzione e la fantasia ci permettano di raggiungere il cuore della realtà.
La vicenda narrata ha il sapore di una leggenda, di un racconto epico. Che rapporto ha con la tradizione e il folklore?
Scrivendo questo libro, avevo intenzione di non ambientare la storia in ordine cronologico, ho ridotto al minimo ogni indicatore del tempo per fare un racconto sospeso tra reale e irreale. Spazio e tempo sembrano galleggiare ai margini dell’umanità. I due fratelli fanno una sorta di viaggio iniziatico che li aiuterà a scoprire loro stessi. Si tratta di un lungo viaggio, ma è soprattutto un viaggio interiore. I due fratelli sono alla ricerca di redenzione. Mi piace pensare che si tratta di una sorta di epica personale.
Vuole lasciare un messaggio ai nostri lettori, Gli Amanti dei Libri?
Le parole sgorgano da noi stessi e ci guariscono.