Autore: Marasco Wanda
Genere: biografia romanzata
Pagine: 352
Prezzo: 18,00
In occasione di Libri come, manifestazione annuale che si svolge a Roma presso l’Auditorium Parco della Musica, incontro Wanda Marasco per parlare del suo ultimo, candidato da Neri Pozza al Premio Strega. Il genio dell’abbandono è la biografia romanzata dell’artista napoletano Vincenzo Gemito, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Rinchiuso nel manicomio di Villa Fleurent a causa della sua follia, il racconto inizia con la sua fuga verso casa dove, una volta raggiunta, resterà volontariamente chiuso per molti anni a lavorare sulle sue opere nella convinzione di non meritare, in qualche modo, la libertà. Ponendo sullo sfondo delle sue vicende private, meravigliose sono le pagine citate dal suo diario, gli avvenimenti storici, i rapporti con gli altri artisti, napoletani ed europei, e i suoi viaggi a Parigi, l’autrice riesce a delineare a tuttotondo i contorni vivi, quasi plastici, e le profonde sfumature dell’anima di un personaggio tormentato, affascinante e controverso.
“Il genio dell’abbandono è un libro bellissimo e molto particolare, nel quale è possibile seguire più itinerari di lettera che riescono però a convergere tutti a rendere unica e unitaria la storia della vita di Vincenzo Gemito. Come nasce un libro così?”
Ogni volta che parlo della genesi di questo libro, scopro anch’io qualcosa di nuovo. Nasce per un caso, sfogliando a casa di un amico pittore la biografia di Salvatore Di Giacomo, mi colpirono, oltre alle opere di Gemito, le foto che lui, per sfidare la fotografia come arte moderna, si fece ritrarre senza alcun timore nudo dall’amico Ferdinando Lembo perché era convinto che nel mondo ci fosse la verità. Ecco, questa risposta si può dare un po’ a tutto il romanzo che, a partire dalla lingua, vuole esprime la veridicità della vita. Poi ci sono i luoghi di Napoli che sono gli stessi della mia infanzia e della mia adolescenza. Il terzo motivo d’ispirazione, che s’intreccia con gli altri ma che costituisce il tema centrale del romanzo, è la battaglia per fare l’arte, quella innocente, che vive di se stessa e della sua voglia di lasciare un senso nelle nostre vite. Naturalmente non credo soltanto nell’arte alta, declamata, ma anche in quella di un fornaio che può fare un ottimo pane. Saranno pure registri e livelli diversi, eppure chiunque lotta nella vita per affermare una passione, un’identità o un prodotto che sublimi il proprio artigianato, mio Dio… Questo è il senso che vorrei dare alla mia stessa, piccolissima, esistenza.
“Anche riferendomi alla sua formazione filosofica e teatrale, un aspetto che subito colpisce il lettore è quello del doppio e in particolare l’immagine dello specchio.”
La letteratura del doppio ha una grande tradizione nella cultura occidentale in cui la letteratura precede di molto Freud, Jung e la psicoanalisi, annunciandola prima ancora che diventi una nuova scienza. Nel caso di Gemito il tema del doppio era dovuto e l’ho usato, in senso registico, come chiave di volta. La follia di Gemito oggi sarebbe definita bipolarismo nel senso che non avendo evoluzione il nucleo del suo dolore, una forma di scissione in qualche modo c’è stata. Gemito passava dal sentimento della gioia, dell’enfasi e dell’innamoramento per l’arte a momenti deliranti di forme di sospetto verso il mondo e i familiari o di amarezza verso i suoi fallimenti. E poi questo suo dolore della mente, espressione che preferisco alla parola ‘follia’, mi ha dato proprio la possibilità di immaginare Vicienzo a specchio con se stesso, fino al punto di creare il personaggio di Peppino, una sorta di alter ego che rappresenta la trasformazione del suo amico storico del manicomio, Totonno Mancini, col quale parlerà in realtà per tutta la vita, chiuso nella sua stanza di lavoro dove si è autorecluso. Il doppio permette di evidenziare l’altro che è in noi, la spettralità che ci incalza, alla quale vorremmo avvicinarci o dalla quale vorremmo prendere le distanze. Perché non farlo allora in una vita così forte, bella e utopica come quella di Vincenzo Gemito?
“Legata sempre all’idea del doppio e dello specchio vi è una forte componente di contaminazioni, dell’idea di contagio di cui parlava Artaud.”
Certamente e infatti nel libro lo cito espressamente. La consapevolezza di Gemito della fine di ogni cosa e dell’utopico ardore di conservare qualcosa della nostra umanità e della nostra opera è un’idea molto simile a quella dell’amore e del delirio di Artaud. Per lui si conclude in maniera completamente diversa e con una scrittura che sconfina nel suicidio esistenziale, mentre Gemito ce la fa proprio perché in lui vince l’artigiano, l’uomo che ogni mattina deve andare a lavorare, e non il filosofo. Se in lui fosse prevalso quest’ultimo aspetto, si sarebbe fatto molto male, proprio come fu per Artaud o Van Gogh.
“Nonostante le tante contaminazioni, anche linguistiche, non vi è dubbio che il napoletano sia la lingua predominante. Per restare in tema, la domanda è doppia: questa scelta deriva dalla ricchezza di particolari e dalla maggior precisione che una varietà dialettale assicurano? C’è attraverso le parole di Gemito una sorta di cortocircuito tra l’amore per Napoli e il fatto che la definisca “una gabbia”?”
Il napoletano, in realtà, predomina per poco più della metà del romanzo e risponde a quelle esigenze di veridicità di cui parlavamo prima. Per quanto riguarda il rapporto di Gemito con Napoli direi che si tratta dell’odi et amo che provano molti napoletani. Vincenzo ama certamente la sua città e tutto ciò che la cultura napoletana esprime e rappresenta, in particolare il teatro. Negli ultimi anni della sua vita, infatti, ha avuto un grande sodalizio con Raffaele Viviani. Allo stesso tempo, però, Gemito è consapevole della corruzione della città che, passando per la politica, coinvolgeva anche il mercato dell’arte, creando un vuoto culturale. Ed è questo vuoto che Gemito odiava.
“Un altro tema isolabile nel testo è il rapporto tra la storia del singolo individuo e la Storia. Nonostante il libro sia molto ben documentato, quest’ultima resta sempre sullo sfondo, arricchisce ma non ingombra.”
Ho studiato e mi sono documentata molto sia su quanto già sapevo sia su quello che non sapevo, per poi cercare di dimenticarlo, affinché il peso della dimensione storica non fosse eccessivo. Il genio dell’abbandono è anche, ma non volevo che fosse solo, un romanzo storico. Oltre che puntare sugli aspetti più psicologici, emotivi e artistici di Gemito, volevo anche svincolarlo da una dimensione politica. L’unico particolare che ho mantenuto nel testo è questa sua visione quasi fiabesca delle figure del re e della regina, visti come il padre e la madre della patria. Gemito non credeva più di tanto nella politica e nel fascismo. Ha accettato le ultime onorificenze che il fascismo gli ha tributato, sì, ma lo ha fatto come un vecchio che ormai si siede sul suo nome. Lo sfondo storico perciò riesce a dare profondità alla sua umanità, esaltata dai rapporti con persone e temi del suo tempo.
“Quella di Gemito, allora, è più ispirazione o tormento artistico?”
Entrambe le cose. Certamente la fase più divertente e creativa è quella del disegno, ma poi la realizzazione fisica dell’opera è molto faticosa. Pensi alle fusioni per le statue in bronzo o agli sbozzatori che preparano il marmo. L’arte è sia ispirazione che tormento fisico, quasi sportivo, direi. Gemito è stato un grande camminatore per le strade di Napoli, alla ricerca di botteghe di artigiani o in visita ai musei. Andava a piedi perfino a Pompei o a Ercolano dove entrava in contatto con la statuaria greco-romana. Camminare, vedere e poter toccare erano per lui cose fondamentali. Una volta a Parigi voleva a tutti i costi toccare delle statue e i guardiani del museo lo redarguirono: “Monsieur! Monsieur!” Gemito è stato un attraversatore dei tempi e delle opere, lui che non era affatto colto, lo diventò proprio grazie alla sua curiosità, all’osservazione e alla sperimentazione.
“Che cosa rappresenta per lei “il genio dell’abbandono”?”
È una formula ossimorica e fiabesca, anche se certamente non tutti gli abbandonati della vita riescono a essere genius loci come Vicienzo e riescono trovare la via della propria identità. Anzi spesso è il contrario, soprattutto in un contesto di disagio sociale. Anche per questo ho voluto immaginare un’entità fiabesca che soffiasse dietro di lui per spingerlo verso i grandi accadimenti, che fossero positivi o negativi, della sua vita.