Nel suo ultimo libro “L’uomo nell’armadio e altri due racconti che non capisco” (Mondadori) Pietro Grossi ci narra tre storie decisamente surreali. Nella prima, “Lo sgabello”, ci racconta come un anonimo sgabello girevole, collocato nel bar di un aeroporto, inizi all’improvviso a girare senza fermarsi e attiri l’attenzione di tutti. Nella seconda, “Bisturi”, narra l’originale mania di un ricco scapolo solitario che incide gli oggetti utilizzando uno strumento chirurgico. Nella terza, “L’uomo nell’armadio”, racconta la strana relazione tra una ragazza e un uomo pronto a tutto pur di soddisfare le sue esigenze, perfino a dormire chiuso in un armadio pur di non disturbarla. Abbiamo incontrato Pietro Grossi per cercare di capirne di più dei suoi racconti decisamente stravaganti.
Scrive di getto? Come arriva alla stesura definitiva dei suoi racconti?
Scrivo cercando di pensare il meno possibile: non so mai cosa succederà tre righe dopo ciò che sto scrivendo. Spesso immagino subito la frase finale e devo poi rincorrerla per cento pagine. Scrivo rigorosamente a mano, senza nemmeno guardare il testo. Poi ricopio, rileggo, a volte non capisco niente di ciò che ho scritto e chiedo l’opinione di mia moglie o di qualche amico.
Com’è nata l’idea dello sgabello che dà il titolo al primo racconto?
È nata in aeroporto, stavo andando in America da mia moglie, mangiavo una pizza, ho guardato distrattamente uno sgabello girevole e ho iniziato a pensare alla storia. L’uomo nell’armadio invece è stato ispirato da mia moglie durante una telefonata mentre era lontana. Io le avevo detto “Vorrei essere lì”, e lei: “Ma non ci staresti”, e quando le ho detto “Ma io starei anche nell’armadio” lei mi ha preso in giro chiamandomi “L’uomo nell’armadio”. Poi mi è venuto in mente un vecchio “corto” di Roman Polanski, uno dei primi, in cui si vedeva proprio un armadio da cui entravano e uscivano le persone. A bisturi invece ho iniziato a pensare una notte in cui non dormivo perché avevo problemi alla schiena ed ero imbottito di cortisone. Per distrarmi leggevo un vecchio libro di esercizi di disegno e da lì è nato tutto. Troppo cortisone, forse.
Quindi gli spunti sono sempre molto concreti?
Sì, ogni racconto è nato da un’idea precisa.
Scrive di getto, capita quindi che in principio non sappia come andrà a finire la storia?
La fine sì, non so mai cosa succederà nel mezzo. A volte un personaggio dice una frase di cui nemmeno io capisco il senso ma poi rileggendo tutto diventa chiaro.
Se sono in campagna, nel mio studio, lavoro meglio. Ho bisogno della mia tranquillità piccolo borghese, alzarmi presto al mattino, bere il mio caffè e sedermi al tavolo. Cerco di non farmi interrompere ma non sempre è possibile, ho anche un bambino di nove mesi. Quando sto portando avanti una storia riesco a scrivere però un po’ dappertutto. Contano soprattutto il buonumore e l’energia.
Quando ha scoperto la letteratura?
Tardi, verso i diciannove anni mentre a scrivere ho iniziato molto prima. Gli autori importanti sono stati soprattutto i grandi americani del Novecento, Hemingway, Salinger.
E la letteratura italiana?
Se la metti a confronto con le vere grandi letterature di altri paesi è un po’ di serie B: basti pensare all’Ottocento russo, a quello francese o al primo Novecento americano. Abbiamo qualche libro importante qua e là, come “La coscienza di Zeno”.
E Buzzati? È uno scrittore affine al suo stile.
Non ci sono ancora andato fuori a cena, non mi ha ancora preso. Sogno da sempre di fare una bacheca dove mettere i libri da portare su un’isola deserta e poi l’ho fatta nella mia casa in campagna. Buzzati è ancora sullo scaffale a fianco, non è entrato in bacheca.
Cosa pensa dei social network?
Ho provato a starci dentro ma non li capisco. Mi sono reso conto di essere morto nel 1999, sono un uomo del ventesimo secolo rimasto fermo alle mail e al primo internet. Possono essere una fonte interessante di informazione. Trovo inquietanti però le persone che intrattengono rapporti solo virtuali. La comunicazione di sicuro è una cosa fantastica ma il mondo non ha ancora trovato il modo di viverla in modo salutare, magari tra dieci o vent’anni le cose andranno meglio.
È un appassionato motociclista, tra andare in moto e scrivere cosa preferisce? E che differenza c’è?
Andare in moto, tutta la vita. Ma riguardo alla differenza, è una bella domanda. Direi la libertà. Per me la motocicletta non è affatto segno di libertà, come sono portati a pensare in tanti, ma è l’apoteosi del controllo, perché sei su un mezzo difficile da guidare. Scrivere è invece per me la cosa più libera che esista: sei ogni giorno un principiante di fronte a un campo aperto.