Tre amici, un viaggio, il ritorno nella loro Sardegna. Il racconto di una generazione, dei loro sogni e speranze, i loro fallimenti e i loro progetti per il futuro. Troviamo questo e molto altro in La stagione che verrà, il nuovo libro di Paola Soriga, edito da Einaudi. Abbiamo incontrato l’autrice al Salone del Libro di Torino per scoprire qualcosa in più sul suo ultimo lavoro.
Dora, Agata e Matteo sono molto diversi ma tutti e tre decidono di tornare in Sardegna. Come mai dopo le loro storie hanno sentito il bisogno di tornare nella propria terra?
In realtà ci tornano tutti e tre per delle ragioni diverse. Dora ci torna perché trova un lavoro lì, incredibilmente perché di solito si pensa alla Sardegna come una terra dove si pensa ci sia poco lavoro, ma io credo anche che sia una terra dove adesso ci sono delle grosse potenzialità. E con lei arriva un po’ una di queste grandi potenzialità. E lei inizia a lavorare là. La sua amica Agata ci fa per farsi coccolare perché rimane in cinta da un compagno che non vuole questo bambino e quindi dovrebbe affrontare la gravidanza in una città che comunque non è la sua, senza compagno, torna nell’isola e sa che almeno ha un’amica sicura che si prenderà cura di lei e poi ha anche accanto la famiglia. Questa per altro è una cosa buffa, ma veramente tantissime mie amiche che sono e che conosco, sarde, quando rimangono in cinta vanno a partorire in Sardegna, quindi non so se c’è una logica. C’è quest’idea che il bambino nasce nell’isola, che nasce sul mare, che si hanno le zie vicine; poi se vanno, ma per partorire vanno in Sardegna. E Matteo si aggiunge alle altre due perché invece lui scopre di avere una malattia e decide di affrontare almeno il periodo delle prime cure a casa. Il tema sanitario in realtà un tema di affetti: nei momenti di necessità uno ha bisogno di reti e di appoggi che siano un po’ più forti degli amici con cui vai a fare l’aperitivo, magari sono anche quelli, ma c’è qualcosa in più.
C’è una frase del tuo libro che mi ritorna spesso in mente ‘’Io sono tutte le persone che ho conosciuto”. Relazione come esistenza?
Sì da una parte questo, da una parte anche dal punto di vista narrativo Dora è un personaggio che mi ha permesso di raccontare anche tanti altri personaggi, magari anche solo tramite dettagli, delle brevissime storie, che sono quindi rappresentativi secondo me di un mondo di persone di quell’età che si incrocia e che si disincrocia continuamente. Per cui attraverso la narrazione si costruisce l’esistenza che sono poi relazioni sia in presenza che in assenza, che incroci soltanto una volta per caso o che ti accompagnano per tutta la vita. Dora è un po’ le racchiude. Le esprime tutte insieme.
Che cos’è l’amicizia, il sentimento forte che lega i tre ragazzi, cos’è davvero?
E’ quasi una famiglia, un rapporto familiare. Sono persone che sono volontariamente ad un certo punto, uscite dalle reti più familiari degli amici dell’infanzia e quindi che per forza se ne sono dovute costruire di nuove. E queste nuove assumono anche la valenza della famiglia, in particolare in queste vite in cui nessuno di loro ancora alla loro età hanno, se avranno o no, una famiglia ma sanno che di sicuro hanno un tipo di famiglia basata sugli affetti dell’amicizia. Fanno fatica a fare a meno uno dell’altro, non vogliono.
Anche la musica ha un ruolo molto importante in questo romanzo, vero?
Sì, la musica ha un ruolo importante perché banalmente c’è nelle nostre vite. La musica valeva anche da prima, anche per i nostri genitori, ma noi in particolare tra le TV di musica, da MTV a Video Music, e poi la radio; chiaramente la musica è una parte importante della nostra vita e in questo libro c’è una musica diversificata a seconda dei gusti dei personaggi protagonisti. Va da Laura Pausini a delle cose più ricercate ma con la stessa idea per cui la musica e le parole della musica ci accompagnano nei nostri stati d’animo, nelle allegrie e nelle tristezze.
La tua scrittura riesce a coinvolgere molto bene il lettore. Come riesci a trasmettere la cura per i tuoi personaggi?
Questo è un lavoro di stile, un laboratorio che ogni scrittore ha. Il mio va molto in questa direzione, una scrittura che sia empatica che ti faccia immedesimare anche se non è quella la tua vita. Una delle cose più belle dei libri penso sia proprio questa, che ti fanno entrare proprio nei panni di un’altra persona, ti mettono nei panni di qualcun altro. E’ questo che mi auguro di riuscire a fare. E’ la mia ricerca che passa attraverso un linguaggio un po’ lirico e poetico che usa molto la prima e la terza persona e che mira proprio a questo, a trasmetterti un’idea di vicinanza con i personaggi.
Quale sensazione ti piacerebbe che il lettore provasse una volta arrivato alla fine del tuo romanzo?
Mi auguro che ne provi tante e diverse. Una cosa che mi viene da dire è una parola: catartico. Un po’ come per me lo è stato scriverlo, mi auguro che il lettore che si immedesima e che quindi vive le emozioni che sono dentro il romanzo quando arriva alla fine possa vivere questa stessa condizione di catarsi, una sensazione di liberazione emotiva.