Quest’anno Bookcity Milano ci ha regalato la possibilità di una lunga chiacchierata con Luis Sepúlveda. Tornato in libreria con una nuova favola “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza“, edita come sempre da Guanda, che racchiude in sé molti degli elementi caratteristici della sua narrativa, ci ha parlato del rapporto con la letteratura, ma anche con la natura e la vita, non rinunciando a lanciare un profondo messaggio civico.
La vicenda del suo ultimo libro prende le mosse da un bisogno: la lumaca, protagonista di questa favola, vuole conoscere se stessa e il mondo e trovare una spiegazione della sua essenza.
La lumaca si pone delle domande innanzitutto sulla sua identità: come può individualizzarsi, essere unica e irripetibile. Ha sentito dentro di sé che senza avere un nome non era piena l’esistenza. Nella narrazione scopre il valore della lentezza e come le sue caratteristiche di essere piccola e fragile non sono aspetti che le fanno male ma diventano una caratteristica distintiva. Lei arriva a dire: “Io sono così e la mia forma deve essere una forma lenta”.
Perché ha scelto le favole per comunicare questi messaggi?
Ho scelto le favole perché ho sentito che attraverso di esse potevo guardare più da lontano il comportamento umano e avvicinarmi alla pura narrazione. È il genere ideale per potersi concentrare non tanto sull’avventura del personaggio, sulla trama, ma soprattutto sui valori che si vogliono trasmettere.
A questo proposito mi sembra che nelle sue favole sia sempre centrale il valore dell’incontro con l’altro, dell’amicizia nella diversità.
La vita è diversa o non è vita: l’umanità stessa è caratterizzata da differenze etniche, culturali, razziali. L’unico punto comune che deve essere davvero uguale e omogeneo è la giustizia. Una delle idee fondamentali, che ho voluto esprimere nel libro “Storia di un gatto e di un topo che diventò suo amico”, è quella di un animale che ne incontra un altro diverso in una situazione di emergenza. In quel caso la mancanza di comprensione, la rivalità scompare. Quello che unisce è il bisogno.
Com’è il suo rapporto col tempo?
Io credo che si debba arrivare alla libertà per ogni essere umano di decidere il proprio tempo, la propria direzione, la velocità o la lentezza. Oggi esiste il mito della velocità vertiginosa ad esempio nella comunicazione, ma mi chiedo se serva davvero. Un rapporto si costruisce col tempo: due persone si conoscono, decidono se si piacciono e poi si arriva all’amicizia o all’amore a seconda dei casi. Tutto ciò nasce con una comunicazione fatta di tappe successive e quindi è lentezza e non può essere rimpiazzata da Whatsapp!
La lentezza è anche una caratteristica del suo rapporto con la scrittura?
In effetti direi proprio di sì: molti editori sono stati vicini al suicidio per colpa della mia lentezza! (Ride) Lavoro piano piano, passo per passo.
Lei ha un legame molto forte con la radio, ce ne può parlare?
Ho avuto sempre un rapporto speciale con la radio, difficile da capire oggi. Quando ero bambino la sera mi sedevo con pazienza a cercare l’onda corta e mi connettevo con una radio in Olanda ad esempio. Per me era un momento veramente magico. Una volta hanno invitato la gente a inviare lettere per descrivere la città e il quartiere in cui vivevano. Io l’ho fatto, avevo otto anni ed è stato molto emozionante sentir dire “Il nostro amico Luis Sepulveda ci ha scritto dal Cile”. Poi a 16 anni ho iniziato a lavorare per il radioteatro e ringrazio questa esperienza, perché mi ha dato la capacità di scrivere in un tempo preciso: tutti i giorni la trasmissione durava 26 minuti né uno di più, nè uno di meno. Da ultimo, ascolto la radio anche quando lavoro: mi piace sentire questa presenza umana, almeno nella prima fase. Se si avanza piano in un romanzo la compagnia della radio è insostituibile. Poi quando arrivo al momento che richiede maggior concentrazione smetto: si tratta ad esempio di trasformare 20 pagine in 10 buone pagine di letteratura e la mia mente non può distrarsi. Ancora adesso lavoro alla radio in Spagna: al lunedì ho 5 minuti di trasmissione, “Lo sguardo di Luis Sepulveda” in cui commento gli avvenimenti dell’attualità.
La lentezza secondo lei è anche una forma di resistenza nella società moderna?
Sì ed è soprattutto uno sguardo sulla vita. Quando la società è determinata nella direzione di una vertiginosa velocità, l’individuo può cercare il coraggio di fare una pausa, dicendo: “Io voglio decidere se andare in una certa direzione: io scelgo la mia velocità, non il potere”.
Questo valore come si lega dunque al suo impegno politico e sociale?
La lentezza è un modo per recuperare la conoscenza del mondo che ci circonda e averne più rispetto. Il contadino ha sempre tenuto conto di un determinato ritmo dato dalla natura, per esempio nella coltivazione del grano: il tempo della semina e della crescita, il vigilare sulla quantità d’acqua necessaria e sull’eliminazione dei parassiti. Alla fine di un tempo ben preciso, dopo che le spighe si sono trasformate da verdi in dorate, si procede alla raccolta e anche alla conservazione per produrre altro grano. Questa cultura, dettata da un forma logicamente lenta della natura, si altera con la transgenica. Non ci si preoccupa dell’acqua e dei parassiti. La pianta cresce, si moltiplica a dismisura ma si sacrifica il rapporto con la terra generando il lucro di pochi proprietari.
Oggi i bambini sembrano avere paura della noia. Come si può spiegare che la noia è tempo da spendere e non deve essere tutto programmato?
Quello che manca oggi in tante case è la conservazione di un momento prezioso, quello in cui il gruppo chiamato famiglia si siede a tavola: si parla di ció che si mangia e di come è stata la giornata per ogni componente. Questo tempo di lentezza fa forte la convivenza umana. Anche la scuola deve prendersi il tempo di soffermarsi sui problemi dei ragazzi, parlarne con loro. Quando ero un bambino mi piaceva sentire raccontare le storie: è qualcosa che si deve assolutamente coltivare. Lo facevano mia mamma e i miei nonni e ciò mi ha avvicinato alla letteratura, alla cultura, alla curiosità nei confronti del mondo. Mi piace andare nelle scuole e sentire i bambini cosa pensano. Amano quando arriva qualcuno che racconta, ma bisogna pensare di rivolgersi non a un piccolo cretino, come purtroppo può accadere, ma ad un essere umano, una persona, e narrare belle storie. La banalità allontana il bambini dalla letteratura.
La favola è speranza. Lei è fiducioso o dobbiamo essere preoccupati per il mondo attuale?
Io lo vedo male, ma sono ottimista. Soli non possiamo cambiare, ma insieme sì; il problema è la mancanza di coraggio per dire”Questo non va bene, va cambiato”. Io credo nel coraggio civile, perché l’ho visto in atto e so che può determinare il cambiamento.