Ken Follett non delude, mai. L’abbiamo incontrato domenica 11 novembre, al teatro Franco Parenti di Milano, dove ha presentato ufficialmente il suo ultimo lavoro, “L’inverno del mondo”, ai lettori italiani; guardandoci intorno, nel contesto di un teatro stracolmo, ci siamo anzitutto chiesti -e gli abbiamo chiesto- come riesca, in un’epoca in cui la lettura è diventata un passatempo di nicchia, a tenere milioni di persone incollate, senza timore, a romanzi lunghi ben oltre le mille pagine. Come riesca ad appassionare, con il suo ultimo romanzo come con gli altri ventitré che ha pubblicato in questi quasi quarant’anni di carriera, un così vasto pubblico.
Credo di essere ormai riuscito a far miei certi meccanismi, che nella letteratura “popolare” sono sempre esistiti: reputo fondamentali i punti di svolta della storia, che io posiziono ogni 4-6 pagine. Se si va a vedere i romanzi del passato, per esempio quelli di Jane Austen, ci si accorge che funzionavano allo stesso modo. Secondo me, cambiare prospettiva nel momento giusto è decisivo per la ricezione del romanzo: libri lunghi, quindi, ma non “ponderosi”, o lenti, perché l’azione e lo sviluppo della storia hanno i tempi giusti e per questo riescono a catturare il lettore.
Perché a un certo punto ha deciso di lasciare i thriller (che tanto successo le avevano portato nei suoi primi anni da scrittore) per il romanzo storico?
Avevo una forte curiosità per le grandi cattedrali: ogni volta che ne vedevo una mi chiedevo perché fosse proprio in quel punto, perché le persone del Medioevo avessero deciso di costruirla, spendendo tempo, energie, risorse per farlo. Da lì è nata l’idea di costruire un romanzo sulla costruzione di una grande cattedrale: un romanzo popolare, non difficile, per tutti.
Poi ho scoperto quanto fosse significativo per me descrivere epoche passate, e in particolare il Medioevo, sul quale ho in mente di tornare: mi cullo infatti con l’idea di scrivere un nuovo sequel di “Mondo senza fine” (il capitolo che segue, cronologicamente, “I pilastri della terra”, ndr).
Veniamo alla “Century Trilogy”, la grande opera della quale ha appena pubblicato il secondo libro: è indubbio che ci sia, da parte sua, un’attenzione particolare verso la famiglia gallese e le vicende che la coinvolgono. Quanto c’è di autobiografico nei personaggi di Aberowen?
È sicuramente una parte della storia molto autobiografica: voglio dire che c’è un po’ di me in ognuno dei personaggi gallesi che descrivo. Nel lavoro in miniera, nelle lotte politiche per i diritti dei minatori o anche semplicemente nelle visite domenicali di Billy Williams ai genitori, che nella casa dei miei nonni rappresentavano un’abitudine consolidata durante la mia infanzia.
Se ci si sofferma sulla realtà inglese, si ha la netta sensazione che la nobiltà britannica, impersonata prima dai coniugi Fitzherbert e ora anche dal figlio Boy, rappresenti – con la sua crudeltà, col cinismo e il conservatorismo – un fattore decisamente negativo, forse il più negativo dell’intero panorama della trilogia. Ha qualcosa a che vedere con la sua anima labour?
Come in tutte le storie, è necessario inserire degli elementi che rappresentino il Male. Forse qui c’è un po’ di interpretazione soggettiva anche da parte di chi legge, però ammetto che mi sono lasciato prendere la mano! (ride, ndr) Sono di parte, e mi viene naturale attribuire l’etichetta di “cattivi” ai membri dell’alta società e quella di “buoni” ai componenti della working class.
Come costruisce i suoi personaggi?
Quando ho cominciato a scrivere la trilogia, ritagliavo foto e disegni dalle riviste dell’epoca, cercando le facce che mi colpivano con maggior forza e che mi trasmettevano delle emozioni. Qualcosa tipo “sì, quella potrebbe essere Carla!”. A volte si trattava di un attore famoso, e io semplicemente gli cambiavo il nome (ride, ndr).
Google ha cambiato la nostra vita. Ha cambiato anche la sua?
Sì, moltissimo. Fino a qualche anno fa, controllavo la mia enciclopedia tutti i giorni, anche più di una volta al giorno. Ora saranno dieci anni che non la apro. È incredibile quanto sia facile “googleare” le cose, anche le più semplici: per esempio, ora che sto scrivendo della Guerra Fredda, mi sono chiesto con quante “h” si scrive Chruščёv! Quindi sì, adoro Google. E Wikipedia!
Quanto tiene in considerazione i suggerimenti che gli arrivano dai lettori, e quanto le indicazioni che riceve dai critici?
Mi interessano di più i primi: le email e i tweet che ricevo dai lettori comuni sono sempre rivelatori per me e, molte volte, mi hanno spinto a cambiare in corsa idee e progetti.
Riguardo le trasposizioni televisive o cinematografiche: partecipa alla stesura delle sceneggiature? Partecipa alla scelta degli attori? C’è già l’idea di trasformare la trilogia, una volta conclusa, in un film o in una miniserie?
Raccontare storie con le immagini richiede abilità diverse rispetto a raccontare storie con le parole. Quindi no, non partecipo e lascio fare il lavoro a chi è molto più bravo di me a scrivere scripts (per le miniserie televisive de “I pilastri della terra” e “Mondo senza fine”, John Pielmeier). Ne “I pilastri della terra” mi avevano affidato un piccolo cammeo all’interno del film, ma evidentemente dovevo essere davvero un pessimo attore perché per “Mondo senza fine” non mi ha chiamato nessuno! (ride, ndr)
Guardando avanti: il terzo capitolo della trilogia sarà il primo in cui lei si troverà a descrivere eventi che ha vissuto di persona, storicamente. Come pensa potrà influire questo aspetto sulla scelta del materiale narrativo e sulla sua scrittura?
In questo momento sto scrivendo il capitolo che riguarda la crisi dei missili a Cuba, nel 1962: un periodo in cui io ero ancora troppo giovane per capire, per rendermi conto. Avrei dovuto aver paura, ricordo che le persone intelligenti avevano paura in quel momento, ma io ero soltanto un bambino. Nel 1967-68, invece, ero uno studente universitario a Londra e ricordo perfettamente il movimento dei Figli dei Fiori, le contestazioni per il Vietnam, la rabbia e le lotte cui ho partecipato: quando arriverò a descriverle nel libro, probabilmente, questo influirà, ma ancora non sono in grado di dire in quale misura.