A tu per tu con… GianLuca Favetto e Antony Cartwright

gianluca favettoQuest’anno ricorre il trentesimo anniversario della tragedia dell’Heysel a Bruxelles dove, poco prima della partita fra Juventus e Liverpool, morirono trentanove  persone e oltre  seicento rimasero ferite. Il salone del libro di Torino di quest’anno è stata l’occasione per intervistare due scrittori, uno italiano, Gianluca Favetto, e l’altro inglese, Antony Cartwright, che a quattro mani hanno fatto rivivere quella drammatica giornata nel loro libro “Il giorno perduto: racconto di un viaggio all’Heysel”. La particolarità di questo libro è stata la decisione dei due autori d’immaginare le aspettative ed i sogni  di italiani ed inglesi prima della partita attraverso due viaggi, uno di un gruppo di amici della Valchiusella e l’altro di un giovane solitario inglese di Newport, entrambi diretti verso la capitale belga.

Il primo pensiero che mi è venuto leggendo il tuo libro è il titolo che per me simboleggia l’occasione mancata. Un giorno che fino all’ultimo sa di festa,  descritto bene dalla partita di calcio nella piazza centrale di Bruxelles, ma soprattutto da questa frase “E’ uno stringersi di mani, darsi pacche sulle spalle tra quelli del Liverpool e quelli della Juventus (pag 275)”, ma che all’improvviso si tinge di sangue e di orrore. Come hai scelto questo titolo?

La decisione del titolo non fu facile perchè l’editore voleva che in poche parole riassumessimo il senso del libro per cui ci confrontammo molto fra di noi. L’idea però mi venne una volta in cui ero rilassato in montagna ed assistevo, per caso, alla preparazione  di una festa di paese con tutta la passione ed il coinvolgimento che c’è nel celebrare un evento che si aspetta con trepidazione. Ho immaginato lo stato d’animo di ragazzi che hanno aspettato un evento, per loro memorabile, e poi all’improvviso dopo aver viaggiato dal loro paesino fino al centro dell’Europa tutto svanisce colorandosi di sangue.

Mi sono chiesto, in un momento in cui vanno di moda i grandi campioni e le grandi star del passato pubblicano le loro autobiografie, cosa t’abbia spinto a mettere nel tuo libro come riferimento, per dei giovani tifosi di quel periodo, un giocatore come Koetting ai più sconosciuto?

Nel romanzo abbiamo sempre cercato di creare una sorta di contrasto nel viaggio parallelo dei giovani protagonisti. Gli italiani sono un gruppo coeso di quattro amici che provengono da un paesino di campagna, mentre Christye l’inglese è un solitario, caratterizzato bene dal suo soprannome Monk, che viene da Newport una città industriale inglese. Cosi in questa forma di contrasti,  mentre l’inglese  ha nel romanzo come beniamini due grandi stelle del calcio inglese come Ian Rush e Daglish, abbiamo scelto che il giocatore di riferimento per gli italiani non dovesse essere famoso. Nel mio paese, dice Favetto, ha vissuto questo giocatore Koetting è quindi m’è sembrato logico sceglierlo come personaggio di riferimento per i quattro amici juventini.

Il viaggio come momento di passaggio per tutti i protagonisti. Mi sembra che nel tuo libro, attraverso le voci sia dei quattro italiani che del giovane inglese, ci sia una visione chiara del passato, una consapevolezza del momento presente, ma il futuro sembra sfumato, come un ombra misteriosa di cui avere paura. Hai pensato ai giovani d’oggi  che nella costante precarietà vedono il futuro incerto quando hai fatto chiedere ai tuoi personaggi cosa desiderassero per il loro futuro? (Cit. “Qual’è il desiderio più forte? Cosa desideriamo per il nostro futuro? pag 221)

Nel libro s’è cercato di fondere due temi che sono spesso presenti sia nella vita che nella letteratura. Il primo tema, presente in ogni cultura ed in ogni epoca, è quello del passaggio dalla giovinezza all’età adulta e l’altro è quello di come i giovani di ogni generazioni debbano affrontare ciclicamente le crisi economiche e sociali. Il modo scelto per affrontare questo passaggio è stato il viaggio verso una meta specifica dove c’è un prima fatto di speranze e sogni, ma, obbligatoriamente, alla fine di questo percorso ci sarà un futuro che si dovrà affrontare.

Com’è stato per te che (forse) hai vissuto quella giornata rivivere nella scrittura quel tragico  giorno?il giorno perduto

Ho  pensato che per rendere meglio l’idea dovessi entrare nei miei personaggi e rivivere le loro vite. Io ed il mio collega inglese abbiamo pensato di dilatare il tempo dei protagonisti e vivere con loro la preparazione della traferta, il lungo viaggio verso Bruxelles e la giornata stessa della partita. Credo che solo togliendo il nostro vissuto, ma immaginando lo stato d’animo di cinque adolescenti diversi  con i loro sogni e le loro speranze si potesse cogliere al meglio quei momenti.

Mi ha colpito l’impotenza dell’allenatore del Liverpool di fronte allo scempio di quei teppisti. Avevi in mente un immagine specifica quando hai descritto il suo tentativo, quasi solitario, di arginare quella turba scatenata?

L’allenatore del Liverpool Joe Fagan era un simbolo della classe operaia (working class) che si sentiva fiero del suo esser parte della comunità attraverso il lavoro. Una persona che credeva nell’integrità, nel duro lavoro e nella collaborazione all’interno di un gruppo. Fagan aveva visto la follia della guerra e non capiva come si potesse riprodurre nuovamente il caos incontrollato. L’immagine che m’è venuta in mente è quella di un capitano solo in mezzo alla burrasca che cerca di governare  una nave oramai in preda alle onde sempre più alte e minacciose.

C’è un motivo particolare per cui l’inglese Chrystie, detto Monk, viaggia da solo?

L’inglese viaggia da solo perché doveva rappresentare al meglio l’isolamento ed il dolore di chi viveva e vive nelle  grandi città dominate dalla fabbrica. Crystie sente la solitudine ed il fallimento come, tanti della sua generazione, per la mancanza del lavoro. Crystie  può solo rifugiarsi nella curva quando va allo stadio, ma lì, tra loro, non troverà mai delle vere amicizie. Nel suo viaggio l’inglese avrà più volte l’occasione di unirsi ad altre persone, ma non riuscirà mai, non solo per la sua timidezza, ma soprattutto perché la città l’ha fatto sempre sentire piccolo, un puntino minuscolo che non riesce ad emergere. Monk rappresenta l’isolamento che prova l’uomo quando si sente solo ed indifeso di fronte ad una folla spesso indifferente ai problemi del singolo.

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