Al Salone del Libro di Torino abbiamo incontrato Fabrizio Silei per parlare del suo ultimo romanzo Se il diavolo porta il cappello, edizione Salani. Il libro, ambientato nella Toscana rurale degli anni ’50, narra la storia avventurosa di Ciro, un ragazzino di 13 anni. Figlio di un soldato dell’esercito americano e di una ragazza madre. Ciro vive nella continua attesa del padre che non torna mai e in una condizione di emarginazione totale. Pieno di rabbia e di risentimento per quella società che non lo accetta e non lo comprende, Ciro reagisce facendo dispetti e compiendo atti vandalici. In Salem, un giovane zingaro, che vive una condizione di “outsider” come lui, Ciro troverà quella lealtà e quell’affetto che la famiglia e che la società cosiddetta “regolare” non gli hanno mai dato.
Nel suo romanzo racconta una bella storia, complessa, avventurosa ed avvincente, affronta temi importanti, di attualità ma anche universali: la guerra, l’emarginazione, l’accettazione della perdita e la scoperta del diverso. Perché ha ambientata il suo romanzo nel dopoguerra?
Credo che a volte il modo migliore per parlare del presente sia voltarsi indietro e raccontare del passato. E’ come se ci fosse bisogno di una prospettiva, del passo indietro del pittore di fronte alla tela, di uno spazio conoscitivo che permetta di parlare al lettore facendo fare a lui un paragone ed evitando così di diventare “educativi”. La distanza aiuta a leggere meglio le cose.
Ha reso gli zingari protagonisti di un romanzo. Come si è documentato sulla storia di questo popolo di cui poco si sa e che conoscenza diretta ne ha?
Parlare degli zingari è difficilissimo perché non si parla di un popolo ma di una pluralità di etnie, ciascuna con un propria visione delle cose. Ho letto molto della loro storia e poi ho ascoltato molte testimonianze video di persone anziane che non ci sono più; ho provato anche ad incontrare gli zingari di persona e non è stato semplice stabilire un rapporto con loro perché c’era reciproca diffidenza. La mia visione di queste persone è cambiata nel momento in cui ho cominciato a rapportarmi con loro in modo diverso, trattandole come persone e cercando di entrare in sintonia con loro.
In un’ epoca di razzismo dilagante e di enormi pregiudizi come questa, sente la responsabilità di aver scritto un romanzo controcorrente?
Non so se il romanzo sia controcorrente. Sicuramente lo zingaro nella nostra società è ancora “l’altro”, “il diverso”, viene associato solo a gesti e situazioni negative. L’idea dello zingaro fa ancora molta paura.
Quanto Ciro somiglia al Tom Sawyer di Twain?
Ciro effettivamente potrebbe essere un erede di Tom Sawyer per il suo modo di vivere dentro e fuori le regole. Di fatto però lo sento più vicino, per la storia rocambolesca che racconto, aI Conte di Montecristo. E poi in questo romanzo ci sono anche molti riferimenti ad uno dei libri più importanti della letteratura per ragazzi e che è fondamentale per il mio lavoro: l’Isola del tesoro di Stevenson. Ne ho tratto ispirazione anche per la figura di Salem, quella dell’antagonista che non è il cattivo per eccellenza ma che è anche complice. Stevenson ci insegna che nei romanzi, anche in quelli per ragazzi, i personaggi non devono necessariamente essere buoni o cattivi e basta, anche se nel mio libro di cattivi eccellenti non se ne sente di certo la mancanza.
Chi scrive un libro per ragazzi ha forse maggiore responsabilità rispetto a chi scrive per gli adulti. Ci sono cose di cui non si può parlare nei libri per ragazzi?
Non credo che un libro debba avere un fine educativo consapevole. Una storia non deve avere la pretesa di insegnare nulla. Si scrive perché si hanno delle cose da raccontare. Se poi una storia diventa di insegnamento è perché è una grande storia e somiglia alla vita di qualcuno. Scrivere per i ragazzi è sicuramente la sfida più ardua per uno scrittore perché i ragazzi sono lontanissimi da noi, riuscire a stabilire un dialogo con loro è la sfida più alta della comunicazione. E’ una battaglia che si vince quando chi legge arriva fino alle fine del libro. Si può parlare di tutto, evitando però di essere morbosi. Occorre stare attenti a non indulgere nella descrizione dell’orrore: farlo sarebbe veramente scorretto nei confronti di chi legge.
Cosa vorrebbe che rimanesse ai lettori del suo libro se non una lezione morale?
Vorrei che ricordassero che non sempre il diavolo porta il cappello, che sotto il cappello può magari a volte nascondersi un vecchio mezzo matto con tanti libri intorno che ti riporta a casa una parte di te.
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