Sotto il sole di Mantova durante la diciannovesima edizione di Festivaletteratura abbiamo incontrato Fabio Genovesi, vincitore del Premio Strega Giovani 2015 per volontà di una giuria di 400 giovanissimi lettori tra i 16 e i 18 anni in rappresentanza di 44 scuole secondarie superiori tra Italia, Berlino, Bucarest e Parigi, e componente della cinquina finalista al Premio Strega. Fabio arriva al nostro appuntamento come uno dei tanti volontari del Festival, ovvero in bicicletta, e da subito la nostra intervista diventa una piacevole conversazione tra amici.
Comincerei dal risvolto di copertina di uno dei tuoi libri, dove nel tuo profilo c’è scritto “ha vissuto per anni di espedienti”: ovvero?
Espedienti quasi tutti legali non preoccupatevi. Non proveniendo da una famiglia altolocala agiata, ma da una famiglia operaia, non mi potevo permettere di inseguire il sogno di vivere della mia scrittura: quindi per più di quindici anni ho scritto di notte, facendo tanti lavori diversi di giorno. Vivendo in Versilia i lavori erano quasi sempre stagionali e particolari, dal portare la spesa a casa delle persone al raccattapalle, cameriere, aiuto bagnino perchè per fare il bagnino serviva il patentino: ho anche insegnato italiano agli americani. E poi di notte scrivevo: non sempre era facile perchè magari tornavo stanco alle 2 del mattino, e soprattutto per anni non ricevevo risposta ai miei scritti e pensavo “potrei uscire con gli amici o riposarmi”, ma ho resistito.
E il sogno è stato più forte di tutte le difficoltà e dei no?
Più che i no proprio non mi rispondevano perchè nessuno mi leggeva, è molto difficile farsi leggere senza essere conosciuto. Ma in verità forse ero io a non volere veramente che queste cose uscissero, perché non facevo le mosse giuste, non mandavo agli editori giusti e mandavo via pochissime cose. Era più uno scrivere per me stesso finché quello che scrivevo non mi fosse piaciuto veramente. Sono contento che quello che ho scritto in quegli anni non sia uscito e non uscirà mai, ma trovo importante che quando arriva l’occasione buona uno abbia lavorato, e abbia comunque qualcosa da far leggere.
Quindi ad un certo punto è scattata una molla e hai sentito che quello che stavi scrivendo era finalmente “giusto”?
Esatto, non capivo che voce dovevo usare, alcune cose mi piacevano e altre no, ancora la percentuale di felicità nello scrivere non era abbastanza. Io non credo a quelli che dicono “soffro per scrivere”, soffri magari a limare e a lavorci: a me scrivere deve dare un godimento fisico e mentale, se non lo sento quello che sto facendo non ha senso.
I tuoi sono tutti romanzi corali, non c’è mai un’unica voce: è perché secondo te, per usare il titolo di un film, nessuno si salva da solo? In questi tempi di crisi e di “finta comunicazione” attraverso i social c’è bisogno del contatto umano e della collettività?
Non credo che mi riuscirebbe di scrivere un romanzo con un protagonista solo, in funzione del quale ruotano le vite di tutti gli altri personaggi che gli stanno intorno: sono morbosamente curioso delle vite degli altri, e mi piace pensare che tutti gli altri stanno facendo cose e hanno gioie e problemi esattamente come me. Quello che mi stimola delle storie è l’interazione tra le persone: tutto quello che facciamo è frutto dell’interazione con gli altri, le nostre azioni vengono determinate dalle loro risposte e azioni. Anche la crisi ci spinge a stare con gli altri, per risparmiare, per condividere e scambiarsi le cose, il contatto con gli altri è sano.
Presentando il tuo libro hai detto che “Le cose nella vita arrivano come le onde, e bisogna prenderle”: e allora usando il titolo del tuo romanzo chi porta le onde? Il Caso o il Destino?
Io credo nel Destino assolutamente: mi affido spesso al Caso e quasi sempre ho ragione, ma sono convinto che sia un Caso non casuale. Secondo me tutto sta non nel dominarlo, ma nel viverlo bene: un po’ come il mare quando è mosso, non è pericoloso se ci sai nuotare, lo diventa se tu ti irrigidisci, mentre se ci sai stare diventa qualcosa di estremamente interessante, basti pensare a chi fa surf. A volte il dolore arriva, tante altre volte siamo noi ad essere inadatti alle situazioni e per questo le viviamo male e ne soffriamo.
Con questo libro hai vinto il Premio Strega Giovani, decretato da una giuria di ragazzi tra i 16 e i 18 anni, con la motivazione che “ogni pagina è un’ondata di emozioni”, e tu spesso dici che nella vita bisogna “picchiare sui tamburi”. Sembra che i giovani abbiano recepito il tuo messaggio e che si sappiano ancora emozionare, nonostante spesso si dica che i ragazzi di oggi sono svogliati e disinteressati.
Penso che il compito folle di ogni generazione sia di parlare male della generazione successiva: spesso i commenti negativi vengono fatti da persone dell’intellighenzia che sono bravissimi ad essere vecchi dentro pur non essendolo anagraficamente e credono di avere una verità tutta loro che devono diffondere. Io ho grande fiducia nei giovani, non vorrei mai fare l’errore di dire di loro che non capiscono niente: il giorno che dici così non sei vecchio, sei proprio morto dentro. I giovani hanno una mentalità molto più aperta anche verso quello che non conoscono, per questo sono molto contento di aver vinto lo Strega Giovani: perché i ragazzi della giuria hanno avuto i libri finalisti, li hanno letti tutti senza pregiudizi e poi hanno votato quello che piaceva loro di più, che dovrebbe essere la norma generale per assegnare un premio, e invece non lo è.
Parliamo di musica, che tu definisci, più dei libri che hai letto, la tua vera ispirazione: se “Chi manda le onde” dovesse essere un disco, che LP sarebbe?
Io sono molto affascinato dai concept album che raccontano una storia, ma credo che “Chi manda le onde” sarebbe una compilation perché ha tante anime: potrebbe esserci un pezzo degli Smashing Pumpkins, pieno di vita ma a tratti anche amaro, penso per esempio a “1979”, ma anche Claudio Villa che viene citato spesso nel libro. In generale ci sarebbe musica tra gli anni Settanta e Novanta, che più mi ha stimolato.
Un altro concetto interessante che hai espresso in un’interivsta recente è “Con le mani pulite non si racconta nulla”. Venti o trent’anni fa “sporcarsi le mani” per uno scrittore probabilmente avrebbe significato scrivere di determinati fatti storico-politici legati all’attualità: oggi cosa vuol dire?
Spesso quando prendo un libro non guardo il titolo, la copertina o la trama nel risvolto, ma leggo la biografia dell’autore, perché credo che le persone che hanno di più da raccontarmi sono quelle che hanno fatto cose interessanti nella vita: non mi aspetto che me le raccontino, ma una persona che ha uno stile di vita che mi piace è probabile che racconterà storie che mi piacciono. Per me sporcarsi le mani è anche questo: vivere una vita vera, saper accendere un fuoco, saper potare una siepe, saper pescare, cose del tutto normali ma che molti non sanno fare. Cose che ti fanno andare a letto stanco la sera ma di una stanchezza sana, piena di soddisfazione.