Eclettico ed energico, Andrea Scanzi, è laureato in lettere, sommelier e degustatore, giornalista, attore e scrittore. Firma di punta de “Il Fatto Quotidiano”, ha scritto numerosi libri tra cui Ve lo do io Beppe Grillo, Mondadori (2008), I cani lo sanno, Feltrinelli (2011) Non è tempo per noi, Rizzoli (2013). Il suo ultimo romanzo, La vita è un ballo fuori tempo, edito da Rizzoli, racconta di un paesino immaginario, un protagonista disilluso e un universo tragicomico fatto di dittature politiche, amici del bar, nonni ‘rampanti’, ragazze evanescenti e piccoli Jedi. Un universo che, con ironia, racconta una storia e, al contempo, parla anche di noi.
Quello che dipingi è un universo tragicomino: il quarantacinquenne falllito, i vecchietti “sgamati”, il playboy navigato… come mai hai scelto di descrivere questo universo di paese? Pensi che si possa definire un ritratto della società di oggi?
Ma sai è difficile che me lo dica da solo, nelle ambizioni che avevo c’era anche quello: la mia idea era quella di utilizzare il doppio binario, da un lato quello del divertimento, dell’ironia, della leggerezza; dall’altro un’osservazione abbastanza impietosa del presente. Avevo in mente quelli che sono stati i grandi autori che ho letto come Pennac, Benni, Calvino… lui soprattutto nei suoi scritti ha sempre usato la doppia lettura, creando un mondo altro, alieno, paradossale, che fa sorridere con ironia – come Il barone rampante – ma anche riflettere. Io che sono piccolo rispetto a questi giganti volevo, anzitutto, divertire il lettore, poi vi è il secondo piano di lettura: siamo sicuri che Lupinia sia immaginaria, ma che non sia simile a una provincia dell’italia del 2015…? Se fra una risata si percepisce il desiderio di raccontare il presente io sono felice; non so se ci sono riuscito però lo volevo fare.
Nel tuo libro ti diverti a scrivere aforismi e frasi a effetti, a volte parte della narrazione, spesso messi in bocca al quartetto di vecchietti del romanzo. È una ricerca che fai appositamente o è una parte istintiva della tua scrittura?
Entrambe le cose, sono il mio tipo di scrittura e il mio parlato che sono portati alla sentenza e all’aforisma, è una cosa di famiglia, anche mio padre risponde spesso con frasi effetto, ma dietro ogni citazione c’è un significato. I personaggi di questo libro parlano tantissimo, c’è un ping pong continuo, mi piaceva portare avanti la narrazione con frasi fulminanti e divertenti che vanno bene anche prese a sè stanti, che stanno bene a pagina 80 come a pagina 200, mi parevano un buon modo per raccontare la storia di questo paese immaginario ed essere insieme una maniera per restare fedele alla mia scrittura. E’ uno stile mio naturale, piuttosto che una ricerca; la ricerca linguistica si trova nei dialoghi dei personaggi, nel senso che ogni generazione parla in maniera diversa, lì c’è molta ricerca nel conio, nella frase a effetto, ma, tutto sommato, sono frasi che fanno parte del mio catalogo.
Trovo emblematica la figura del bambino che Stevie vede sulla strada per il lavoro, “il piccolo Jedi”. Il protagonista riferendosi a lui dice una frase singolare: “Se gli avesse parlato, lo avrebbe immediatamente impoverito. Lo avrebbe normalizzato. Lo avrebbe privato del suo ruolo di piccolo Jedi. Un reato di lesa fantasia.” Cosa rappresenta davvero quel bambino per il protagonista? E per lei?
Grazie la domanda, sei la prima, assieme a Carlo Freccero, che fa caso a quel personaggio durante le interviste; con Carlo l’ho definita la parte più romantica del libro. Riguardo a cosa rappresenta per me, è difficile risponderti, perchè quando è nato questo libro avevo in mente principalmente un dialogo continuo fra nonno e nipote, volevo che parlassero assieme, vivessero assieme, spesso in contrastati dove il nonno è più forte del nipote. Avevo però in mente anche questo personaggio, che è un’apparizione sistematica per Stevie che ogni giorno vede qualcosa di bello in una vita triste: per un uomo così avviluppato su se stesso questo bambino che fa cose normali diventa straordinario e quindi è come se nella sua vita, sempre più monotona e lenta, ogni tanto accadessero cose belle e inesorabilmente, come un sasso che viene cambiato da una goccia, queste piccole cose belle lo portano ad una ripartenza. Le cose belle per Stevie, se ci pensi sono due, che non interagiscono ai tra loro: una una è Layla, l’amore, ma non mi bastava però come scintilla volevo che ci fosse questa seconda cosa bellissima e semplicissima che è un bambino, il quale è addirittura così straordinario nella sua normalità da essere un Jedi. Il bambino è qualcosa di semplice, bello e meraviglioso che non va conosciuto troppo perchè la sua sola esistenza comunque permette di rimettere in moto la vita del protagonista. C’è anche un piccolo fondo autobiografico in quel bambino: io ho un ottimo rapporto con le donne, le anziane e i cani e non ho rapporti con bambini, sono timido con i bambini, non ho la chiave d’accesso, per cui in questo libro ho messo un bambino che mi piace, che parla pochissimo, ed è straordinario.
Ad un certo punto leggiamo un “decalogo del giornalismo del bene”, in cui il Premier Bacarozzi indica 10 principi dal sapore orwelliano, che devono guidare il giornalismo filogovernativo. Come mai hai deciso di inserire questo dettaglio satirico nel tuo libro? Credi sia un principio che vale anche per il giornalismo italiano?
Anzitutto ho inserito questo decalogo perchè non volevo scrivere un libro che fosse soltanto divertente: non sopporto i giornalisti e gli intellettuali che pur avendo una grande potenza mediatica non hanno il coraggio di esporsi. Io non potevo non metterci quello che vivo e quello che vivo da giornalista è una classe politica insopportabile e supponente, ma al tempo stesso un giornalismo che corre in soccorso del vincitore, che non è un cane da guardia della democrazia ma un cane da guardia del potere. E quando ho scritto il decalogo ho volutamente esagerato. Anche se a quanto pare la realtà ultimamente sta superando la fantasia.
“Chi ride è padrone del mondo” scrive Leopardi. E il tuo libro, con l sua irriverenza, fa riflettere ma fa anche ridere. Quale credi sia la forza dell’ironia, della satira, della risata nella scrittura, ma anche nell vita di tutti i giorni?
Chi sa ridere è una persona che sta meglio con se stessa. La satira ha questa capacità di essere accattivante e quindi in qualche modo di porsi in maniera benevola nei confronti del lettore o dello spettatore. Oltre a ciò, c’è un’aspetto legato a quello che diceva Calvino in Lezioni americane: la leggerezza è la chiave di volta per narrare il presente; più sono leggero meno mi prendo sul serio, pìù prendo distanza dalle strutture del mondo e dalla contemporaneità e più in realtà la sto raccontando. In questo modo è come se ci fosse la ‘quadratura del cerchio’ fra il desiderio naturale che si ha quando si legge un libro, il voler star bene, e al tempo stesso il racconto la verità più brutale. Io, ultimo fra gli ultimi, credo che la satira abbia la capacità di raccontare meglio di qualsiasi altra forma narrativa la realtà; inoltre; invecchia molto meglio: se racconti qualcosa nel 2015 con nomi e cognomi, magari piace oggi, ma fra trentanni e non ti dirà più niente, ma se lo fai con la satira, racconti il presente, fai denuncia e informazione, svolgi il ruolo di intellettuale e scrivi qualcosa di più longevo di un saggio, biografia o qualcosa di prettamente politico.