Andrea Ballarini, copywriter, collabora con “Il Foglio.it” e lavora tra Milano e Roma. Nel 2003 appare per Lupetti Editori di Comunicazione di Milano il suo primo romanzo “Giallo Viola – Casanova, il cinema e l’amore”. Nel maggio 2009 pubblica, con Del Vecchio Editore, il romanzo ambientato nel mondo della commedia dell’Arte del Seicento “Il trionfo dell’asino”, seguito nel 2012, sempre per Del Vecchio, da Il male degli ardenti: una lettura originale ed interessante in cui con una lingua raffinata che ammicca agli usi seicenteschi si attraversano diversi generi.
Partiamo dal titolo, che appare subito di non immediata interpretazione. Che cosa significa “male degli ardenti”?
Il libro è ambientato alla fine del Seicento e il “Fuoco di Sant’Antonio”, male degli ardenti appunto, era una malattia molto grave che aveva degli effetti devastanti: la cancrena arrivava a devastare mani e volto fino agli organi interni e portava quindi alla morte. Nel Medioevo interi paesi furono spazzati via; era una malattia sociale molto conosciuta, tanto è vero che c’era un ordine di monaci, gli Antoniani, che avevano come compito istituzionale di assistere i malati e che hanno aperto ospedali in tutta Europa. Nel libro la malattia si diffonde a Venezia ed è legata al mistero che costituisce una parte della vicenda.
In effetti un aspetto singolare della storia è che parte come un romanzo d’ambiente e di formazione per poi stringersi in una trama gialla.
E’ proprio così. Il male degli ardenti è il secondo capitolo di una trilogia di cui tre anni fa è uscito “Il trionfo dell’Asino”, il primo volume. Sono episodi indipendenti che possono essere letti anche con ordine diverso. Nel primo libro, che si configura maggiormente come un romanzo di formazione, Giacomo Crivelli, il protagonista, ha vent’anni ed è il figlio di un funzionario di una corte seicentesca dell’Italia Padana, non meglio specificata. Secondo l’ordinamento sociale dell’epoca era in predicato diventare a sua volta un funzionario del Ducato per cui lavorava, ma lui non aveva nessuna vocazione e quindi, un po’ come aveva fatto Molière, si associa a dei comici vaganti. Incappa in Aristotele Cereri, che diventa suo compagno d’avventure e si mettono sulle tracce di una commedia che contiene un segreto. Arrivano a Versailles e poi a Venezia. In questo secondo capitolo Giacomo, dopo alcune peregrinazioni ed un tentativo di vita ascetica, torna in una laguna sconvolta dall’epidemia e da strani delitti e comincia suo malgrado ad indagare. E’ in preparazione il terzo capitolo della trilogia, che è vagamente ispirata a quella di Dumas sui Tre Moschettieri.
Come mai ha deciso di narrare una storia in cui il mondo del teatro fosse protagonista?
In un’epoca in cui la mobilità sociale era praticamente nulla gli attori erano una delle poche categorie che avevano la possibilità di accedere anche ai livelli più alti della società, arrivando perfino ai nobili e al re pur avendo una qualifica infima: a volte non erano nemmeno sepolti in terra consacrata. La ritengo una categoria con potenzialità narrative ampie. Poi c’è un elemento autobiografico, perché ho studiato la commedia dell’arte. E’ stato un fenomeno importantissimo per due secoli e mezzo nella storia europea, prima italiano e poi francese, di cui non si sa praticamente più niente. Nella maggioranza dei casi se ne ha un’idea molto fumosa, che va da Mago Zurlì a Strehler. In realtà è stato un fenomeno centrale nello spettacolo europeo, più permeante di quello che oggi è Hollywood. I ricchi in quell’epoca avevano disponibilità incredibili e arrivavano ad usare il teatro per dimostrare le loro possibilità: costruivano scenografie mirabolanti destinate magari a durare solo qualche giorno per le feste che realizzavano coinvolgendo il popolo.
Nel suo libro utilizza un particolare espediente narrativo: fa precedere i capitoli da brevi riassunti. Quali sono le ragioni di questa scelta?
In essa vi è la commistione di due registri narrativi, cioè la divisione in atti e in scene tipica dei testi teatrali e l’inserimento di sommari tipico dei testi barocchi. Secondo me sono carini perché in qualche maniera ti fanno venire la “golosità” di scoprire cosa accade realmente nel capitolo. Una delle mie preoccupazioni è che chi legge poi si annoi a morte, quindi tutto quello che mi aiuta a tenere viva l’attenzione e a far venire voglia di girare pagina cerco di usarlo.
Deriva anche da questo la scelta di utilizzare una trama gialla?
Sicuramente sì, poi c’è il fatto che desideravo dei limiti strutturali e narratologici da mantenere e infine, siccome si tratta di una trilogia sul potere, in cui si parla di complotti e persone che gestiscono il proprio ruolo in modo fraudolento, mi sembrava che una trama noir fosse l’ideale.
Ci può dire qualcosa sul suo rapporto con la lettura?
Secondo me si può leggere qualunque cosa, purché sia divertente e interessante. Divertente non vuol dire necessariamente distrarsi, ma talvolta persino concentrarsi. L’importante è che si entri dentro a quello che si legge, credo. Nel momento in cui non ti annoi, lo scritto ha almeno raggiunto il suo obiettivo principale.