L’ElzeMìro – Fablìole-Desaparecido

In apertura Nieces di Zoey Frank

Tutti i bambini del condominio invidiano il signor Tucker anche per via di quel cognome straniero che a molti adulti-cari suscita dubbi, tàcchar o tiùcchrr o tùucka, ma irrisolti perché nessuno ha mai fermato Tucker per chiedergli il suo how to pronounce e soprattutto se è vero o no che il suo è un patronimico anglo che ognuno tuttavia dà per scontato e si arrangia a pronunciare a fantasia o secondo il proprio circolo canottieri; in altri al contrario eccita compiaciute irrisioni tanto nazional-popolari quanto puerili, Tè il tùchete-tìchete-tichetà ; e a quei pochi che invece hanno letto o leggono, ricorda per assonanza lo Huckleberry di Mark Twain così che fantasticano sulle origini e il destino oltreoceanico di una progenie chissà transilvana dei Tucker ; magari tu che hai l’animo del filosofo greco dirai, Tucker quasi come tüche o tüchi ma col ch aspirato e una erre appiccicata dal fato: destino appunto.
L’invidia dei bimbi però è in sostanza a motivo dell’autobus che Tucker guida, in orari sempre diversi, dal vicino capolinea a una destinazione – dove mai sarà, pensano e talvolta chiedono ai genitori cari senza ottenerne risposta, dove mai sarà circ. sin. villa Tiche – villa destino per i grecisti –. Quasi tutti i bimbi  pensano piuttosto che il signor Tucker sia padrone dell’autobus, nel senso di proprietario, come dell’utilitaria o del suv sono padroni o titolari del leasing i loro cari genitori-cari ed essere padroni di un autobus e di una così lampante divisa alla sua guida è motivo dello loro fantasie infantili. Dipende dai turni di guida ma per quanto riguarda il capolinea in particolare l’invidia è accresciuta del fatto che al ritorno da scuola nel pomeriggio in direzione campetto di calcio, i bambini colgono Tucker arrivare alla guida del suo bell’autobus, e fermarlo entro il perimetro del capolinea segnato sull’asfalto il bel mezzo di pubblica utilità dalla livrea blu e gialla e arancione con quel ronzio di ape che sviene del modernissimo motore ; sentono tirare il freno di stazionamento, detto a mano dai più, vedono aprirsi le porte a soffietto con un rumore di carta velina strofinata e Tucker, lungo quant’è nella sua divisa grigio-elegante e col berretto quasi da poliziotto di sghimbescio sulle ventitré di solito – e con una giaccona di pelle in inverno buttata sulle spalle col fare dell’eroe sopravvissuto a una fortezza Bastiani – e il distintivo degli autoferrotranviari che gli penzola dal taschino sinistro della sua giacca in primavera-estate, altezza cuore in segno di indefettibile appartenenza, eccolo lui che scende in strada per i minuti di pausa prevista e concessa dal quadro orario – siano 3 siano 7 o forse 10 – che si stiracchia un poco, batte i piedi a terra alle volte, che fa uno o due saltelli e e e e, qui sta l’invidia di tutte le invidie, eccolo entrare nel bar-caféteria in fronte al capolinea e poi, come se avesse tutto un mondo di tempo a disposizione, eccolo sorseggiare da un bel bicchiere pulito una coca-cola; questo in primavera-estate, altrimenti un cappuccino. I più tra i bimbi sognano che da grandi si compreranno anche loro un bus come quello, anzi più bello e tutto elettrico, una fantasia di elettronica e di batterie. Tra loro, il più sognatore forse, ripete in estasi che da grande farà di certo il guidatore di bus ché così, Al capolinea potrò scendere a bere una cocacola. Il frutto proibito a ciascuno del suo.

Tucker che pensa non si sa a che cosa quando beve lì nel bar la sua cola e poi guarda l’ora distillata da un orologio sopra il bancone, la sindaca al suo orologio da tasca – questo è un dettaglio del personaggio Tucker che imbambola ogni bambino – e poi a lento passo si avvia al, per così dire suo, autobus, risale al posto di guida intanto che qualcheduno ha preso di furia un posto a sedere nel carrozzone, poi pigia di accensione il bottone e sblocca il freno di stazionamento, detto sempre a mano, chiude le porte che si chiamano a soffietto proprio, credi, per il soffio di carta velina che fanno al chiudersi e all’aprirsi, e riparte e si diparte via via e dopo nemmeno un minuto è già lontano; qualcuno con le vene e le arterie poetiche, te magari, direbbe: come un ricordo confuso. Qualcuno dalla vista lunga e razionale potrebbe soltanto vedere la sagoma dai tre colori sostare laggiù alla prima fermata.

Tucker è da solo alla guida del suo bus e la fatica di guidare nel traffico della città da lunedì a sabato in mezzo a suv rincorrenti e camion lenti e furgoni in sosta forzata e biciclette atterrite e motociclette con l’istinto dell’acrobata sventato, la smaltisce da volontario alla domenica. Tucker ha ottenuto di portare il suo bus in tutti, in molti dei turni domenicali, quelli ben inteso che non fanno altro che uggia ai colleghi, si sa: e chi ha la partita allo stadio e chi gioca a calcio coi bimbi e chi dorme tutta la mattina fino a tardi perché la sera del sabato prima ha fatto tardi con la cara mogliettina o altra compagnia di letto, e chi va a spasso mangiando gelati e chi prende la funiviavai per i monti a scalare e chi poi la sera mangia la pizza. Tucker la domenica invece è capace di assumere più di due turni di guida, soprattuto il pomeriggio quando non pochi, quasi tutti nel condominio schiacciano un pisolino o stanno in altre faccende di cuore o altre sciocchezze affaccendati e infino alle nove ore sindacali e a quello serale per il solo, anzi con l’unico gusto di guidare il suo bus su e giù per viali sgombri e le strade deserte. Gli piace arrivare e partire da villa Tiche in fronte alla quale non c’è tuttavia un caffè dove rifugiarsi per un ristoro e che quindi non offre distrazioni tranne la propria mole, il giardino in rovina intorno e una gru, intesa non come uccello ma quale strumento meccanico per sollevamento pesi, e che qualcuno chissà quando vi ha piantato, anche proprio nel senso di piantato lì nel giardino e mai smontato o reclamato così che nei più per non dire in tutti i punti del ferrame è arrugginita. Fino a diventare con molte probabilità inservibile ; nelle giornate di vento forte ondeggia tanto da far credere a chi per avventura passi da quelle parti che da un momento all’altro potrebbe schiantarsi al suolo. Ma ciò finora non è mai avvenuto.

Rapida storia della villa Tiche. Costruzione estesa per complessivi 325 mq calpestabili, piazzata in un giardino né piccolo né grande ma grande abbastanza là dove la città termina con un cartello stradale apposto dall’amministrazione comunale ad indicare, per chi andasse oltre lungo quella strada, che lì da quel punto essa stessa e il territorio non appartengono più alla città e che quindi non si potrà beneficiare né del servizio di nettezza né di polizia comunale, con tutti i vantaggi dei gessetti per segnare in terra spazi di frenata e direzione di veicoli magari collisi, ma solo di quello di polizia statale. La villa sorge peraltro al bordo di un bosco steso dolcemente sui declivi che  costituiscono il circondario cittadino e che sfiorano le spalle alla villa e si confondono quasi col giardino che le pertiene. La statale, intesa strada, proprio a partire da lì dallo slargo con pensilina per passeggeri, persino illuminata di notte e in corrispondenza della quale Tucker parcheggia il suo bus, prosegue pertanto il suo percorso nel bosco.
Non si conosce il nome dell’architetto che fece costruire la villa chissà se duecento anni prima di oggi. Del resto la quantità di elementi creduti ornamentali e solo esornativi, i bovindi, le lesène, le cornici, le decorazioni e, di accesso a una veranda in rovina, una breve scalinata marmorea ad imitare certe fantasie rococò di ascesi all’altare, non permetterebbe allo studioso di storia dell’arte di datare l’opera. Per certo si sa che fu proprio un professore di architettura con studi classici nel suo curriculum a soprannominare Tìche la villa. Forse il motivo, la associazione fu con la sparizione, ma molto tempo addietro, degli ultimi proprietari certi – certi certi oh cielo come si chiamavano ora si fatica a ricordarlo e… e quindi niente sforzi inutili alla storia – bèn, spariti nel nulla in una notte e di colpo e, va detto, in tempi molto malandati. Una costruzione dunque d’epoca non dichiarata e tinta, la costruzione non l’epoca, qui di rosa corallo e lì e là di zafferano e di pistacchio ; ma da tempo le tinte si sono in larga parte fuse in un unico color pantano e gli infissi di legno tutto scrostato alludono soltanto al bianco originale. Alcuni in città chiamano la villa l’acquario, un grandissimo acquario dal quale manchino però da decenni i pesci e l’acqua e non restino che il sudicio e le alghe secche o, forse come su un relitto arenato, le incrostazioni di infiniti esseri sottomarini. Un cancello a due battenti chiuso da un catenaccio pesante e un’inferriata cui le piante si avvinghiano selvagge,  impedisce l’accesso a quella terra di nessuno tranne che di sé stessa.

A Tucker piaceva tutto ciò. Gli piaceva, la domenica sera soprattutto, fermarsi a quel capolinea, lasciare i fari del bus accesi, e scendere per i minuti del suo riposo a osservare quella rovina. Quasi sempre copriva i duecento passi necessari a raggiungere il cartello che indicava il limite della città ; qualcuno, qualche raro osservatore o passante racconta di averlo colto ad osservare a lungo la strada che da lì proseguiva nel bosco, come a studiarla, per poi tornare al suo bus, risalire alla guida e ripartire di nuovo. Si sa che nelle sere domenicali Tucker amava lo svolgersi del suo percorso come una pellicola alla luce dei fari, gli piaceva ai semafori il ron ron vellutato dei motori in folle sui mezzi a motore termico, e il silenzio elettrico dei propulsori elettrici su nuovi e rari mezzi elettrici. Gli piaceva, gironzolare, così diceva a chi glielo avesse chiesto, perché, La domenica ha qualcosa che proietta al di là dei confini… ha qualcosa di chissà se illuminato di luce propria… a prescindere. Queste e altre peraltro rare considerazioni di un ordine che verrebbe voglia di definire etico-quantico non interessavano a chi avesse ascoltato Tucker per caso, come per esempio i vicini di piano, ai quali un fatto soprattutto serviva a consolidarsi nell’opinione che l’uomo Tucker fosse bizzarro quanto il suo nome –  non è sposato… vabbè ma mai che lo si veda con una donna… e tutte le domeniche solo lavoro – qualcuno soggiungeva benigno che forse il Tucker non aveva altro che molto bisogno di soldi e nessuna voglia di socialità condominiali, che aveva a mantenere una moglie o chi altro lontano e ciò lo corrucciava ; ma l’ipotesi ovvero la maldicenza timorosa di alcuni era che fosse un matto, non tanto ma matto ;  il sospetto di altri era invece che fosse un pittore o magari un poeta che arrotondava guidando il bus, o un musico che avesse visto tempi molto migliori ma che si era adattato: in fine dei conti un artista, genere d’essere umano che non interessava al condominio se non per il pericolo che forse costituiva stando alla guida di un mezzo pubblico. Nel condominio solo uno parlava, in senso proprio, con Tucker: un vecchio medico che gli abitava di fronte in convivenza con un giovanotto tarchiato e basso e che in via ufficiale era definito suo nipote e suo… sempre con una borsa per la spesa di rete, filet, piena. Il medico tutti i giorni prendeva l’autobus per andare al suo ufficio di pubblica sanità, sedeva alle spalle di Tucker e allora li si vedeva i due scambiarsi certi aforismi con i quali solo loro si intendevano. Un bambino curioso afferrò una volta per intero questo che, La filosofia da almeno due secoli sta in mano a burattinai di fantasmi. La mammina-cara riferita e interrogata su quella frase replicò al bimbino-caro, Non sta bene ascoltare i discorsi degli altri. Dunque Tucker.

Passa un giorno passa l’altra un bel giorno Tucker scomparve. Nessuno se ne diede conto fino a fatti avvenuti, desapareció e andò così. Andò che in una domenica speciale, per Tucker speciale, una domenica pomeriggio presto, dopo non poche andate e ritorno dall’uno all’altro capolinea, quella domenica Tucker arrivato di nuovo a quello di villa Tiche nel perimetro bus non fece sosta che per pochi minuti, ma col motore acceso e le porte chiuse ; poi rimise in marcia il bus e continuò la sua corsa, ma non in senso contrario: tirò dritto lungo la cancellata della villa. Due anziani sposi, in avvicinamento da una casetta non lontana, testimoniarono che quella domenica avrebbero voluto prendere l’autobus, come ogni domenica, per andare in centro, A mangiare un gelato, che tentarono di raggiungerlo, l’autobus, ma che inspiegabilmente se lo videro ripartire anzitempo e sfumare davanti agli occhi su per la strada che si inoltrava nel bosco alle spalle della villa. Gli anziani non poterono assistere ovviamente alla corsa del bus con Tucker alla guida. Ma è ovvio che  si inoltrò nella galleria che si apriva da lì a sette chilometri e allo sbocco di questa continuò per i tornanti di una bella salita e oltre e sempre più in su fino a un passo e poi giù giù per altri tornanti e rettifili sull’orlo di baratri o sui bordi di laghetti di bianco turchese e poi via per questo o quel paesino sedati dal riposo della domenica e avanti così fino a un confine dove però nessuna guardia guardava. Così Tucker passò oltre le garitte e le bandiere e guidò e guidò oltre quella domenica, oltre tutte le domeniche possibili finché sparì. Ed è curioso, anche da questa storia.

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In apertura Nieces di Zoey Frank

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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